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Avete di fronte a voi
un prodotto in via di estinzione.
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Io ho 54 anni, mi chiamo Paolo Bonolis,
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sono 35 anni che lavoro nell'ideazione,
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nella scrittura e nella conduzione
di programmi televisivi.
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Io non ho scoperte da mostrarvi.
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Non ho una conoscenza così profonda
da poter condividere con voi,
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o da potervi insegnare.
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E giustamente voi vi farete la domanda:
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"allora che vuoi?"
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Sono qui perché m'hanno invitato
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e io cinque anni fa, sei anni fa circa,
conobbi per la prima volta,
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grazie a uno degli autori
che lavora con me,
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il mondo di Ted e l'ho trovato bellissimo,
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l'ho trovata una delle cose più belle
che ho visto negli ultimi vent'anni.
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È uno splendido osservatorio,
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un osservatorio della conoscenza
e della condivisione.
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Quando mi hanno chiesto
di partecipare
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allora ho detto
"va bene, partecipo".
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Però mi sono anche domandato:
"mo' che dico a questi?"
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Giustamente, non avendo scoperte
e non avendo conoscenze
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provo a condividere con voi un pensiero,
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un pensiero che mi è venuto in mente
quando mi hanno chiesto di venire qui.
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E il pensiero mi è venuto in mente
ricordando quando, da ragazzo,
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e ancora oggi, leggevo
libri di fantascienza.
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Ne ho letti tantissimi, tantissimi.
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E alcuni racconti di fantascienza
mi hanno colpito più di altri,
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tanto che, questo che vi sto
brevemente per raccontare,
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mi è rimasto impresso dopo quasi
quarant'anni che l'avevo letto.
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È un libro scritto da -
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io non sono analogico -
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scritto da un certo Fredric.
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È un racconto breve, del 1954.
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ed è un racconto che racconta
una storia buffa, strana,
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piccola, piccola, piccola.
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Un gruppo di scienziati,
in quell'anno del 1954,
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decide di costruire un computer.
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I computer - se avete visto il film
"The Imitation Game" potete capirlo -
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i computer allora erano
dei giganteschi monoliti,
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una sorta di vergine di Norimberga,
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dove, invece che degli spuntoni
dentro c'erano transistor, valvole,
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queste cose qua.
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Costruiscono questo coso gigantesco
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al quale pongono la domanda
delle domande:
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Dio esiste?
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Dopo pochi secondi
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(suono sibilante)
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esce la risposta:
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"potenza di calcolo insufficiente".
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"Eh, cavoli, giusto"
dicono gli scienziati.
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"La domanda è così enorme..."
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Allora costruiscono
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un altro computer,
altrettanto grande,
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e - stiamo parlando
di un romanzo del 1954 -
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connettono questi due computer
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per rendere più potente la potenza,
giustappunto, della ricerca.
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Fondamentalmente, nel 1954,
questo tal Fredric
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aveva costruito nella sua immaginazione
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la prima maglia di quella che
sarebbe stata poi la rete.
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Alla domanda: "Dio esiste?"
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la risposta è sempre la stessa.
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"Potenza di calcolo insufficiente".
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Questo manipolo di scienziati
decidono di non darsi per vinto
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e continuano a costruire computer
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e a connettere un computer all'altro
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creando una sorta di cittadina
di computer giganteschi,
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connessi tra di loro.
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Ma alla domanda: "Dio esiste?"
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la risposta è sempre la stessa.
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"Potenza di calcolo insufficiente".
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Passano i decenni,
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passano i secoli.
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La tecnologia cresce,
cresce in maniera smisurata,
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al punto che i computer ormai
sono sofisticatissimi,
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talmente sofisticati,
talmente connessi tra loro
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che riescono ad autorigenerarsi.
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Ma alla domanda preimpostata
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"Dio esiste?"
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la risposta è sempre la stessa.
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"Potenza di calcolo insufficiente".
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Questa storia va un po' per le lunghe.
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L'umanità scompare.
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Non c'è più nessuno.
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C'è solamente questo
infinito esercito di computer
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che continua a riprodursi,
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diventando gigantesco.
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Finché un giorno,
nel silenzio dell'universo,
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Alla domanda preimpostata: "Dio esiste?"
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esce la risposta.
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"Adesso sì".
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Il racconto breve s'intitola "The Answer",
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ed è scritto da questo tal Fredric
di cui non ricordo il cognome.
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Ma perché vi ho fatto questo racconto?
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Perché mi è venuto in mente ?
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Perché secondo me
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c'è una analogia già nascosta nel racconto
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e provo a condividere un mio pensiero
- potete ricusarlo, potete fischiarlo,
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potete rifiutarlo completamente.
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Però mi è venuto in mente così.
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Io non ho, come lo chiamano gli americani,
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(finte parole inglesi)
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quel coso lì che se fa così.
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Sono analogico, ma funziona
e te lo puoi portare dappertutto.
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(Schiocca le dita)
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(Risate)
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(Applausi)
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L'analogia è tra Dio e il computer.
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Dio - qualunque dio vogliate voi,
mettetela come volete.
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Però effettivamente perché,
fin dagli albori dell'umanità
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l'uomo ha confezionato l'idea
e la proiezione di Dio?
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E perché oggi c'è questa
pulsione fortissima
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nei confronti della rete, del computer,
della tecnologia che permette ciò?
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Perché secondo me
sia Dio che il computer
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ci danno una opportunità.
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Quella di scavallare le colonne d'Ercole
della nostra esistenza terrena,
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ciò che ci tiene qui,
bloccati e un po' afflitti.
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Lo spazio e il tempo.
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Grazie alla velocità del computer,
e alle sue possibilità,
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noi ci possiamo muovere
velocemente tra spazio e tempo
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nel mondo virtuale.
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Certo, per Dio bisogna aspettare un po'.
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Bisogna aspettare di tirare le cuoia,
siamo in una vita ultraterrena.
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Ma, bene o male, la zuppa è la stessa.
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Fondamentalmente noi,
attraverso la figura di Dio,
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e la figura del computer,
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Cerchiamo di vincere questa
eterna battaglia della nostra vita,
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superare queste barriere,
lo spazio e il tempo.
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Ed è un processo logico,
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voler affrontare la problematica.
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Però,
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la storia è un processo di apprendimento
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quanto un processo di dimenticanze.
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Allora io, che non sono un digitale -
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sono un analogico -
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vi offro una riflessione.
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Occhio alla penna.
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Non so come tradurranno,
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se poi questa cosa andrà a tutto il mondo.
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Attenzione, perché il computer,
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la velocità, la virtualità,
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può creare degli smarrimenti.
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Quali sono questi smarrimenti?
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Alcuni sono abbastanza evidenti.
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L'atrofizzazione, ad esempio,
della memoria.
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Noi deleghiamo tutto a qualcuno
che si ricorda tutto per noi,
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e poi noi ci dimentichiamo
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tutto quello che invece potremmo
ricordare con la nostra mente,
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tenendola allenata.
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E questo è un punto uno.
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La conoscenza -
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prima ho sentito la chiacchierata
del nostro amico greco -
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la conoscenza, sì, è importante,
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ma la conoscenza attraverso la rete
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è una conoscenza indotta.
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Non è una conoscenza dedotta.
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È una conoscenza un po' differente,
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dove si vengono ad abbattere
i nostri cinque sensi,
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la possibilità di conoscere
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buttandoci addosso l'esperienza
del raggiungere l'obiettivo.
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E questo ci porta al terzo punto,
da dividere in due maniere.
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Una è il disagio.
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Qual è il disagio che potrebbero avvertire
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i nativi digitali?
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Il disagio di poter vivere la virtualità
in assenza di spazio e di tempo
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- o quantomeno talmente limitato
da apparire assente -
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e ritrovarsi poi nella realtà dove
spazio e tempo sono belli pesanti,
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da affrontare.
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Se li accetti, ci vivi.
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Se li dimentichi, diventano
dei bastioni insormontabili,
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che renderebbero probabilmente
la nostra vita piuttosto disagiata.
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Ma lo stesso tipo di disagio
lo si può rintracciare in un altro modo.
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È sotterraneo, è subcutaneo.
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È la perdita del valore.
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Perché cosa conferisce valore ad una cosa?
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La fatica di poterla raggiungere.
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La fatica impiegata per ottenerla.
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Nello spazio, noi facciamo fatica
a raggiungere un posto,
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attraverso tale fatica raccogliamo
un mare di informazioni,
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le facciamo nostre, e quando questo posto
finalmente viene raggiunto...
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caspita, se ce lo ricordiamo.
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Perché è tutta la fatica investita
che ce lo rende prezioso.
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E nel tempo? Nel tempo è la stessa cosa.
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Sarebbe un problema
smarrire il senso dell'attesa.
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La velocità repentina
di poter ottenere una cosa
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ci toglie l'attesa.
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In assenza di attesa
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il desiderato, una volta ottenuto,
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non ha quel valore
che altrimenti avrebbe avuto
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se lo avessimo dovuto aspettare.
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Insomma, può sembrare il minimo sindacale,
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quello che mi è venuto in mente
da potervi raccontare qui.
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Ve lo ho detto e sono stato felice
di poterlo condividere.
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Poi trattate voi l'argomento
come riterrete più opportuno.
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Ve lo ho detto, tra me e voi
c'è quello che viene chiamato
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"Digital divide".
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Io sono analogico, voi siete digitali.
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Vi ho parlato come se fossi un padre,
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sono il più vecchio, credo,
tra chi ha parlato.
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Ho cinquantaquattro anni, dico.
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Però sono contento di averlo fatto,
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anche se -
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un po' mi sento sconfitto,
in questo pensiero,
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perché mirabilmente un grande sociologo,
Guy Debord, ha detto:
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(schiocca le dita)
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"L'uomo assomiglia ai suoi tempi
più di quanto assomigli a suo padre".
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Grazie.
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(Applausi)