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[RUMORI DI MACCHINA FOTOGRAFICA]
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[Elle Pérez, artista]
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Amo quel momento dove qualcosa è una foto
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e non per forza una parola.
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Oppure, non hai ancora parole per descrivere ciò che vedi.
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Qualcosa può vivere nella fotografia e non essere per forza reale.
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[Oltre l’inquadratura: i lavori di Ellen Pérez]
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Mio cugino Alex fa il wrestler nel Bronx.
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Gli ho scritto: “Posso venire e fotografare il tuo incontro?”
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E lui mi ha detto tipo, “Si, solo non dirlo alla nostra famiglia”
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Mentre fotografavo i lottatori,
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Ciò che mi interessava era la coreografia dell’incontro,
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perché il bello del wrestling è che tutto segue un copione
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e anche una coreografia.
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E ci sono modi per muovere il corpo
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in modo da sembrare davvero dolorante.
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Se tu fossi appeso alle corde come Joe,
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l’intero istante diventerebbe più scultoreo.
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[RISATE]
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Non credo ci sia un modo per
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usare una fotocamera senza creare una certa finzione.
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È tutta un’aspirazione alla recitazione
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[RUMORI DELLA METRO]
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In un certo senso, il mio lavoro si è sempre basato sulla collaborazione.
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Perciò non penso a questo come a un documentario.
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Dato che il mio lavoro è legato in modo sincero e istintivo all’autenticità,
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le persone mi consigliano spesso di fare documentari.
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Ma non sono mai riuscita a capirne le regole.
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L’editore del National Geographic mi ha urlato contro
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perché le mie foto apparivano ingannevoli,
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in quanto sembravano immagini da documentario,
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ma in realtà erano state inscenate.
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Sembra semplice.
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Sono ancora piuttosto costruite.
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[RUMORE DI MACCHINA FOTOGRAFICA]
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Sicuramente il luogo dove molte fotografie vengono scattate-
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-che sia il Bronx o Puerto Rico-
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è davvero importante, e non ci penso mai molto.
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Penso ai luoghi in base a come sono relazionati con le persone.
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Sono formati da rapporti molto forti.
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Ma come puoi mostrare qualcosa che si rifà ad una particolare esperienza
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senza farne vedere lo scenario?
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La fotografia della mano,
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esprime la sensazione fisica e istintiva
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riguardo a ciò di cui sono capaci due corpi.
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Puoi usare la fotografia per rappresentare cose che non riesci ad immaginare.
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Ha così tanto a che fare con la propria identità e con
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come le superfici trattengano le tracce di un’esperienza.
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Un binder è un indumento per comprimere il torace che,
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all’inizio, era stato creato per gli uomini con tessuto mammario in eccesso
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Poi è stato utilizzato dalla comunità trans.
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La foto che ho fatto al mio binder
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è stata possibile solo dopo averloindossato per tipo 5 anni.
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Era diventato logoro.
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Il sudore e il dolore di quell’indumento
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sono tutti visibili sul tessuto stesso,
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e in come viene fotografato, con una grande attenzione ai dettagli.
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Le foto si concentrano su cose come una cucitura,
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o sui tatuaggi di qualcuno,
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o sulla sua faccia.
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Poi quando lo vedi in scala,
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sei in grado di avere una certa familiarità con il dettaglio
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che non puoi avere tramite un rapporto quotidiano.
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Questi enormi collage a muro che ero solita ricavare,
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sia che fossero da disegni per scrivere
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o disegni da testi o frammenti di testi,
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solo per guardare alle cose e proiettarle su di me
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così da pensarci.
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Poi esse entrano lentamente a far parte del lavoro.
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La forma è legata all’essere queer, perché non ha definizioni né limiti,
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deve avere un numero di possibilità tale da essere davvero possibile.
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Una foto è dunque il contenitore perfetto
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perché non è mai davvero definitiva.