Come prendere sul serio diversità e inclusione sul posto di lavoro

Immagina un luogo di lavoro in cui le persone di tutti i colori e le razze siano in grado di scalare ogni gradino della scala aziendale e dove le lezioni apprese sulla diversità sul lavoro trasformino effettivamente le cose che facciamo, pensiamo e diciamo al di fuori dell'ufficio. Come ci si arriva? In questo intervento sincero, Janet Stovall, sostenitrice della causa dell'inclusione, condivide un piano d'azione in tre parti per la creazione di luoghi di lavoro in cui le persone si sentono al sicuro e da cui ci si aspetta che siano i loro sé autentici non conformati.

Tutti hanno quell'amico...

sapete, quello ostinato,

quello che, non importa
quale sia la domanda,

trova sempre un modo di rispondere
qualunque sia la cosa su cui è ostinata.

Io sono quell'amica.

(Risate)

E la cosa su cui sono ostinata

è il razzismo.

Se qualcuno mi chiedesse, "Quindi Janet,
hai programmi per il 4 di luglio?"

Sono pronta a rispondere "Certo,
guardo tutte le puntate di 'Roots'"

(Risate)

O se dicono "Janet,
ho una barzelletta per te:

perché il gallo attraversa la strada?"

"Uh, era un gallo nero?

Probabile gentrificazione."

(Risate)

(Applausi)

Ma per me l'ostinazione
non è solo tenere a qualcosa.

È tenere a qualcosa a sufficienza
da dedicarmici attivamente.

Non è solo pensiero, è azione.

non è solo pregare,
ma muovere i piedi.

E la ragione per cui sono ostinata
sul razzismo e perché so

che l'ostinazione può distruggerlo.

L'ho imparato tanti, tanti anni fa.

Tornando al 1984, ero una matricola
al Davidson College

a Davidson, nel North Carolina.

Davidson è una città minuscola,

città del sud,
divisa dai binari della ferrovia,

con la Davidson bianca da un lato,
e quella nera dall'altro,

e, come studenti neri che vivevano
nel lato bianco della città

venivamo spesso fermati in centro
e ci veniva chiesto un documento,

finché la polizia non memorizzava
i nostri visi.

Ma per fortuna,
non ci volle molto,

perché di 1200 studenti,
solo 52 di noi erano neri.

C'era un professore nero

e un assistente del rettore nero.

Le cose non andavamo meglio nel campus.

Ebbene, questa cosa non mi stava bene.

E così cominciai a scrivere cose.

E a urlare cose.

E dopo circa tre anni così,

mi stancai.

Così decisi di scrivere un'altra cosa;

ho scritto una cosa chiamata "Project 87".

Project '87 era solo una sfida a Davidson:

in tre anni, dal 1987,

arruolare 100 studenti neri,

assumere dieci professori neri,

creare cinque corsi
sulla cultura afroamericana

e assumere un rettore nero.

Non sembrava molto rivoluzionario,

ma ciò che vi fu di differente,

fu che sfidammo Davidson
dicendo che se non si fosse fatto,

avremmo messo in dubbio
il suo impegno per la diversità.

Era un vero problema.

Avevamo stabilito dei numeri reali.

Avevamo stabilito delle conseguenze reali.

Ebbene, il campus impazzì completamente.

Fortunatamente, nel bel mezzo di questo,

Davidson ebbe un nuovo preside,

e il preside era anch'egli ostinato
sulla questione del razzismo.

Così creò una task force

per risolvere i problemi di Project '87.

E qualche mese dopo,

abbiamo prodotto un rapporto di 77 pagine.

Quel rapporto è stato la base
di tutte le modifiche che vennero dopo.

Non ero lì per vedere questi cambiamenti,

perché in realtà, nel 1985,

mi laureai.

(Applausi)

State vedendo le tre persone più felici
sulla faccia della terra quel giorno,

perché stavo andando via.

(Risate)

Comunque, il cambiamento avvenne,

e oggi, ci sono 185 studenti neri,

ci sono 16 professori multirazziali
o di colore,

ci sono quattro rettori neri,

e c'è un interno dipartimento
dove ci si laurea in studi afroamericani.

(Applausi)

Project '87 ha cambiato Davidson.

Ma ha anche cambiato me,
perché ciò che mi ha insegnato

è che c'è una forza grandissima
dentro l'ostinazione.

Così, oggi scrivo i discorsi dei dirigenti

di una delle più grosse aziende al mondo.

È una professione dove il 92 per cento
è bianco quasi sempre maschio,

che fa di me una rarità.

Ma sono una rarità ostinata.

(Risate)

Occuparmi di scrivere discorsi
è una questione davvero personale.

Così trascorro molto tempo
in discussioni approfondite

con il presidente e i dirigenti,

e molte volte queste conversazioni
approdano alla diversità e l'inclusione,

di cui, naturalmente,
sono sempre felice di discutere.

Ma dopo alcune di queste conversazioni,

sono giunta a una conclusione:

penso che il business sia nella posizione
di poter fare qualcosa

che altre entità non possono fare.

Il mondo degli affari
può smontare il razzismo.

I college non possono farlo.

Non ci sono che 5000 di questi
negli Stati Uniti

e solo 20 milioni di studenti iscritti.

Neanche la chiesa può farlo,

solo il 35 per cento di noi
la frequenta regolarmente,

e quando lo fa,

le 11 della domenica mattina sono le ore
a "maggior segregazione" in America.

Ma il mondo del lavoro?

Ci sono 162 milioni di persone
nella forza lavoro americana,

gente di ogni razza,

unita nello spirito di ottenere un assegno
e dover essere presente per ottenerlo.

(Risate)

Ora, so che la diversità
è più grande della razza,

e il razzismo è più grande dell'America.

Ma la discriminazione razziale
è la forma più consistente,

e Dio sa che l'America
è in assoluto la migliore.

E quindi, cosa accadrebbe

se lavorassimo in ambienti diversi
e inclusivi

dove dobbiamo averci a che fare?

E dato che passiamo un terzo
della nostra vita a lavoro,

cosa accadrebbe se lo facessimo
con gente che non ci somiglia?

Penso che il mondo sarebbe un posto
totalmente differente fuori dal lavoro.

Sarebbe fattibile se il mondo del lavoro
si ostinasse con il razzismo.

Ma la domanda è:
come dovrebbe accadere tutto ciò?

Penso ci siano tre cose che il business
può prendere in prestito da Project '87:

problemi reali,

numeri reali,

conseguenze reali.

Vi piaccia o no,

la diversità non è un vero problema
per il mondo del lavoro... ancora.

È una cosa buona da avere,
la cosa giusta da fare,

ma per decenni, abbiamo provato
a sostenere la causa

che la diversità stimolasse l'innovazione
e la comprensione del cliente.

A questo punto è quasi un gioco da ragazzi

un po' come ascoltare
un allarme antincendio

in piedi con la mano sulla porta calda

aspettando qualche dato che vi dica
che la vostra casa va a fuoco.

Perché il dato è già lì.

Aziende con etnie diverse performano
il 33 per cento in più della norma.

Le migliori aziende per diversità
secondo Forbes,

hanno crescite di fatturato
superiori del 24%.

Eppure, in pieno 2018,

e ci sono solo tre Amministratori Delegati
di colore tra le Fortune 500.

e se vi chiamate Molly o Connor,

avete il 14 per cento di possibilità in più
di essere chiamati dopo l'invio di un CV

che non con nomi come Shanice o DeShawn.

E tutto questo, nonostante il fatto
che entro il 2045,

ci si aspetta che l'America sarà un paese
dove le minoranze saranno la maggioranza.

Ecco il fatto:

l'opportunità economica della diversità,
per come stanno le cose oggi,

non risolve alcun problema.

E l'unico modo per cui il business
diventa ostinato

sulla diversità razziale

è quello di avere un problema urgente
e relativo a qualcuno

che non è di colore.

Ho un'idea:

perché non impiegati e clienti?

Perché non importa in quale settore siate,

ne avrete bisogno, giusto?

Bene, parliamo di numeri reali.

Se avete dipendenti e clienti
non avrebbe senso

se somigliassero solo un po'
alle persone che lavorano per voi?

Se fosse il caso, forse il 13 per cento
dei vostri impiegati dovrebbe essere nero

e il 18 per cento ispanico,

perché la popolazione è fatta così.

Forse così è fatta la vostra clientela.

Ma siamo chiari:

diversità e inclusione
non sono la stessa cosa.

Diversità è un gioco di numeri.

Inclusione è questione d'impatto.

Le aziende possono perseguire la diversità

ma devono coltivare l'inclusione.

E se l'inclusione è ciò che si persegue,

bisogna calcolare i numeri
in modo un po' differente.

Che ne dite del 30 per cento?

Perché questo è il punto,
lo mostra la ricerca,

in cui le voci delle minoranze
cominciano davvero a essere ascoltate.

Se si vuole un problema reale,

c'è bisogno di numeri reali
per sistemarlo

e se non si ha intenzione di fissarli,

allora forse non si è seri abbastanza
sui temi di diversità e inclusione.

Questo mi porta al terzo punto:

le conseguenze reali.

Pensate a questo:

quando i venditori dimenticano cosa fare
e non perseguono i loro numeri,

cosa facciamo?

Diamo loro un po' di tempo,
forse facciamo loro del training.

Ma se alla fine non fanno quei numeri,

li licenziamo.

Tuttavia, quando cominciamo a parlare
di diversità e inclusione,

usiamo termini come "responsabilità".

E forse li sgridiamo, e forse
tratteniamo loro uno o due incentivi.

Ma sapete qual è il migliore incentivo?

Un lavoro.

E sapete qual è il miglior disincentivo?

Perderlo.

Dunque se le aziende vogliono davvero
responsabilità,

devono assumerlo come dato di fatto.

Le conseguenze sono ciò che accade quando
non si fa ciò di cui si è responsabili.

Immaginate questo:

immaginate un posto dove le persone
di tutti i colori e razze

stanno sulla scala gerarchica aziendale
e ne scalano ogni piolo;

dove queste persone si sentono sicure,
ma per cui ci si aspetta,

che portino i loro autentici "sé"
non conformati, al lavoro ogni giorno,

perché la differenza che portano
sia insieme riconosciuta e rispettata.

E immaginate un posto dove le lezioni
che impariamo sulla diversità al lavoro

trasformano davvero le cose che facciamo,
pensiamo e diciamo fuori dal lavoro.

Questo è ciò che accade
se tutti lavoriamo insieme

per aggiustare ciò che è rotto.

Questo è ciò che accade se smettiamo
di pregare perché avvenga il cambiamento

e cominciamo a muovere i nostri piedi
per realizzarlo.

Questa è la forza dell'ostinazione.

Grazie.

(Applausi)