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Parliamo di innovazione,
e vorrei partire ricordando a tutti
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che l'innovazione oggi
è, senza ombra di dubbio,
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la principale arma
di cui dispongono le imprese
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per competere con successo sul mercato.
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E questo è forse ancora più vero
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per quelle imprese,
come molte delle aziende italiane,
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che non possono contare su altre armi
come la dimensione,
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e quindi le efficienze di scala
che ne conseguono,
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o l'accesso a fattori produttivi,
come il lavoro o l'energia,
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a costi competitivi.
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Quindi l'innovazione oggi,
lo sappiamo tutti,
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è una priorità in cima all'agenda
di ogni imprenditore e di ogni manager:
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tutti ne parlano.
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Ma forse non tutti sanno esattamente
cosa sia, nello specifico, l'innovazione.
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Io credo che sia molto utile vederla,
e definirla, come un processo:
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non è nient'altro che una serie di azioni,
una serie di decisioni,
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attraverso cui un'impresa,
un'organizzazione
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o noi stessi, un individuo,
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generano un'idea
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per un nuovo prodotto, un nuovo servizio,
un nuovo modo di fare le cose -
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e poi la trasformano in realtà,
la sviluppano, la rendono concreta
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e la portano sul mercato.
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Tradizionalmente, direi
fino a una ventina di anni fa,
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le imprese hanno ritenuto
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che per innovare con successo
fosse fondamentale controllare,
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avere al proprio interno,
disporre internamente
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di tutte le risorse, le competenze,
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le tecnologie, le idee
e le conoscenze necessarie
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per portare avanti questo processo.
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L'idea di fondo era molto semplice:
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per innovare di più,
dobbiamo investire di più internamente,
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assumere i migliori talenti,
tecnici, designer, ingegneri, scienziati
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e aumentare, anno dopo anno,
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gli investimenti nei nostri laboratori
di ricerca e sviluppo.
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Questa idea di fondo è stata nominata
"closed innovation", innovazione chiusa.
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Il concetto secondo cui per un'impresa,
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per innovare con continuità,
e quindi per competere sul mercato,
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fosse necessario espandere continuamente
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e approfondire continuamente
il proprio know how,
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ossia la propria base
di competenze distintive.
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Ci sono parecchi studi
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che mostrano che questo modo
di fare innovazione nelle organizzazioni
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produce una sindrome,
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quella che qualcuno ha chiamato
la sindrome del "non inventato qui".
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Quante volte di fronte
a un'idea, uno stimolo
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che proviene da fuori
i confini di un'organizzazione,
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ci siamo sentiti dire : "Be', questa cosa
la sapremmo fare meglio noi".
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Ecco, la sindrome del
"non inventato qui" è proprio questo:
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la tendenza, spesso anche inconsapevole,
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a giudicare come di minor valore,
di minor potenziale,
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un'idea, un contributo,
una soluzione che ci viene da fuori.
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Qualcuno appunto l'ha chiamata
la sindrome del non inventato qui:
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una barriera culturale,
spesso inconsapevole,
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che incontriamo nelle organizzazioni.
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Questo modo di fare innovazione,
che abbiamo chiamato "innovazione chiusa",
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è stato il modello dominante,
fino a circa una ventina di anni fa;
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ma possiamo ancora oggi considerarlo
un approccio all'innovazione efficace?
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Be', le cose sono profondamente cambiate,
negli ultimi 20 anni.
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Innanzitutto, il processo di innovazione
è diventato molto più complesso,
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e molto più costoso.
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Per rispondere alle esigenze dei clienti,
che cambiano sempre più velocemente;
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per far fronte a una competizione
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che è sempre più globale,
e sempre più imprevedibile,
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oggi le organizzazioni devono innovare
incorporando nei loro prodotti o servizi
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molte più tecnologie,
spesso con una natura digitale,
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rispetto a quanto accadeva
qualche anno fa.
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Prendiamo l'esempio
del mondo dell'automotive:
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c'è chi ritiene che da qui a tre anni
la parte principale del valore
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che verrà creato
nella filiera dell'automotive
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sarà relativa alla componente software,
e non più all'hardware delle autovetture.
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E questo impone una
profondissima trasformazione
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nel modo di fare innovazione
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delle imprese che lavorano
in questo settore.
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Volenti o nolenti,
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e in qualche forma lo stanno già facendo,
devono diventare capaci di sviluppare,
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o quantomeno integrare software
e sistemi informatici di varia natura.
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Ed è molto difficile, come capirete,
farlo, facendo leva,
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confidando solo sulle proprie competenze,
risorse e tecnologie.
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C'è un secondo fenomeno molto rilevante,
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ossia il fatto che oggi il ciclo di vita
di un nuovo prodotto, di un nuovo servizio
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dopo che è stato portato sul mercato
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si è accorciato sensibilmente.
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Ricordo le parole
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dell'amministratore delegato
di Hewlett-Packard,
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che qualche anno fa diceva:
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"Oggi, i nostri prodotti restano
sul mercato tra sei e 12 mesi.
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Cinque anni prima,
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stavano sul mercato
tra i tre e i cinque anni".
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E questo fenomeno di accelerazione
del ciclo di innovazione
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è un qualcosa che è comune
a tantissimi settori industriali.
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Lo vediamo anche noi,
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quando andiamo a comprare
un elettrodomestico a Media World,
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per fare un esempio.
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Quindi, oggi,
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non solo innovare è più complesso,
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ma bisogna farlo anche molto,
molto più velocemente.
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E quindi, cosa stanno facendo oggi
le imprese più innovative,
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che risposta stanno dando a questa sfida?
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Stanno investendo di più internamente,
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nei loro laboratori e processi
di ricerca, sviluppo e innovazione?
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In realtà non è proprio così:
prendete l'esempio di Apple.
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L'anno scorso, Apple ha investito
il 5,4 percento del suo fatturato
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in ricerca e sviluppo.
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Un dato molto lontano
da quello di altre imprese,
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come Microsoft o Google,
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che hanno investito il 13, 14,
15 percento del loro fatturato
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in ricerca e innovazione.
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E questa è una costante della storia
di Apple degli ultimi cinque-sei anni,
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e non possiamo certo dire
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che non sia stata,
e non continui ad essere
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un'impresa molto, molto innovativa.
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Quello che le imprese
che oggi sanno innovare veramente
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hanno dimostrato di fare,
e hanno imparato a fare,
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è quello di far evolvere il loro modello,
il loro approccio all'innovazione
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da una logica chiusa a una logica aperta.
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Oggi, il modello
che queste imprese adottano
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si chiama "open innovation".
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E che differenza c'è tra il modello chiuso
e il modello aperto di innovazione?
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L'idea è molto semplice:
si basa sul riconoscere
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che oggi non è più sufficiente
disporre al proprio interno,
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continuare ad investire
sulle proprie tecnologie,
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sul proprio know how.
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È forse più veloce, più efficace,
meno costoso, meno rischioso,
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saper identificare, cercare, utilizzare
le idee, le competenze e le tecnologie
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il know how che già esistono fuori
dai confini della nostra organizzazione.
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L'idea è molto affascinante,
poi bisogna però metterla in pratica.
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Ed esistono oggi tantissimi
strumenti molto concreti
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con cui si può dar corpo
a questo principio.
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Alcuni sono anche molto noti
e utilizzati da tempo:
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prendiamo ad esempio il caso di Alessi,
che tutti conosciamo,
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l'impresa che produce
accessori per la casa.
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Nel corso degli anni '90,
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ha visto crescere il suo fatturato
da 20 a 100 milioni di euro
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rivoluzionando il suo modello
di innovazione.
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Alessi ha cominciato
a lavorare sistematicamente
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con un network di oltre 200 designer
e architetti che stavano fuori da Alessi
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che l'hanno aiutata a reinterpretare
il significato dei prodotti
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che l'impresa sviluppava
e portava sul mercato,
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intercettando e interpretando
dei cambiamenti culturali
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che in quegli anni si stavano verificando
nella nostra società.
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Potete facilmente immaginare
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quanto fosse più ampio il contributo
di creatività e di conoscenza
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che questa rete
di architetti e di designer
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è riuscita a mettere
a disposizione dell'impresa,
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se confrontato con quello
che avrebbero potuto fare
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i designer direttamente assunti
da Alessi stessa.
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Un secondo strumento è quello che consiste
nel dar vita a delle collaborazioni
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con Università,
centri di ricerca o imprese
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che lavorano in settori
completamente diversi dal nostro
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per dar vitaa dei progetti di sviluppo
di ampio respiro e di lunga durata.
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Un esempio in questo senso
è Dompé farmaceutici
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che poco tempo fa ha creato,
nel suo laboratorio di ricerca e sviluppo,
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in cui investe il 15 percento
del suo fatturato ogni anno,
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un dipartimento che si chiama
proprio "open innovation".
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E cosa fa?
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Ha il compito di sviluppare, misurare,
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far crescere e utilizzare
una rete di relazioni
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con oltre 200 università
e centri di ricerca in giro per il mondo
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con cui Dompé innova quotidianamente.
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E la stessa cosa che,
ad esempio, fa anche Cosberg,
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la nota impresa italiana
nel settore dell'automazione
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che collabora con decine
di università e centri di ricerca,
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in Europa ma non solo.
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Cosberg però fa qualcosa oltre:
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è partner di Intellimech,
che è uno dei più grandi consorzi
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di ricerca precompetitiva
nel campo della meccatronica, al mondo,
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che mette insieme, fa lavorare insieme
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oltre 30 imprese,
centri di ricerca e università,
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che si scambiano continuamente
idee, soluzioni e tecnologie
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per accelerare e migliorare
la capacità di innovare
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di ciascuno dei partner
di questo consorzio.
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Pensate che, negli ultimi anni,
Cosberg ha messo a punto
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16 brevetti innovativi
nel campo dell'automazione
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sfruttando le competenze e gli stimoli
che provenivano da questo consorzio.
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Ci sono però oggi molti altri strumenti,
anche più innovativi,
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che le imprese hanno cominciato
ad utilizzare solo più recentemente,
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per fare open innovation.
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Ad esempio, è in netta crescita
il numero di imprese
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che collaborano sistematicamente,
e spesso anche investono nel capitale,
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di start up o piccole imprese
molto innovative.
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Nel far questo, aiutate
anche dal ruolo di ponte, di collegamento,
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svolto dagli incubatori
o dagli acceleratori di imprese
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come ad esempio PoliHub,
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che è l'incubatore di startup
del Politecnico di Milano,
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che ospita più di 130 startup innovative.
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Ci sono poi, oggi,
anche piattaforme online.
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Non so se avete mai sentito parlare
di Innocentive, o di Nine Sigma,
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che aiutano le imprese
che vogliono innovare
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a entrare in contatto
con comunità di tecnici, ingegneri,
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docenti universitari.
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In alcuni casi, si tratta
di centinaia di migliaia, se non milioni,
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di quelli che vengono chiamati solver,
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che aiutano le imprese
che desiderano innovare
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a trovare soluzioni innovative
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ai problemi tecnici più complessi
che si trovano ad affrontare.
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Un altro strumento che negli ultimi anni
è sempre più utilizzato
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sono i contest d'innovazione
e gli hackaton.
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Sono degli strumenti
attraverso cui le imprese
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possono coinvolgere fornitori, clienti,
partner, studenti, docenti
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nel generare nuovi concept
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per prodotti, servizi
che poi vanno a portare sul mercato.
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Un esempio interessante, in questo senso,
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è la "Global Packaging Challenge"
lanciata nel 2019 da Amadori,
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la nota impresa
nel settore agroalimentare,
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che ha coinvolto una serie di fornitori
attuali e futuri dell'impresa stessa
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nel mettere a punto
delle soluzioni sostenibili
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per i sistemi di imballaggio
di Amadori stessa,
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ed è stato un progetto
di grandissimo successo.
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Il messaggio che volevo trasmettervi
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è che oggi ci sono tantissimi strumenti,
tantissimi tool che si possono usare
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per concretizzare l'idea
dell'innovazione aperta.
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E non sono degli strumenti
a disposizione solo delle grandi imprese
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e delle multinazionali.
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Anzi, forse utilizzare
e sfruttare questi strumenti
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è ancora più importante,
diventa ancora più prioritario
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per le piccole imprese,
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come molte di quelle che ci sono
in Italia e nel nostro territorio.
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Chiaramente, per far questo bisogna
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prendere consapevolezza
di un cambio di paradigma importante.
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Noi abbiamo sempre creduto
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che fosse fondamentale,
per innovare con successo,
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disporre di un solido know how,
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un set di competenze
e di tecnologie distintive
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che l' impresa presidiava,
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su cui investiva
e che faceva crescere nel tempo.
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Oggi le imprese che abbiamo visto,
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e tutte le altre che hanno intrapreso
una strada verso l'open innovation,
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hanno capito che il know how
non è più sufficiente
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e hanno cominciato a sviluppare
quello che io chiamo il "know-where",
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cioè l'interconnessione
con il mondo esterno
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e la capacità di trovare
velocemente e efficacemente,
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prima dei miei competitor,
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dove stanno le idee,
le soluzioni e le tecnologie
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che servono per accelerare
e rendere più efficace
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il mio processo di innovazione.
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Chiaramente, per far questo
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bisogna superare quella barriera culturale
di cui abbiamo parlato,
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la "sindrome del non inventato qui".
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È fondamentale che le imprese capiscano,
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da un lato il valore intrinseco
delle idee e delle soluzioni
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che provengono da fuori
dei suoi laboratori di ricerca e sviluppo;
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e in secondo luogo, è fondamentale
che conoscano quegli strumenti,
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sappiano in cosa consistono
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e sappiano come si mettono
concretamente in pratica.
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Ecco, io credo che oggi
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questa è la sfida principale
per ogni impresa:
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saper "mettere a terra"
il concetto di open innovation
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e fare evolvere la propria filosofia
e il proprio approccio all'innovazione
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da un modello chiuso,
direi autoreferenziale,
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verso questo modello
espansivo e interconnesso
-
che abbiamo chiamato innovazione aperta.
-
(Applausi)