Io e mio figlio portiamo
scarpe della stessa misura.
Per Natale vuole un paio di Air Jordan 4.
Gliele compro,
e poi gliele rubo dall'armadio,
come un episodio di "Black-ish"
su di un Grinch perverso.
(Risate)
Le scarpe sono simboli della mia gioventù.
Le porto come Mercurio,
ai miei piedi afroamericani.
Non vedrei l'ora di tornare
a quei tempi giovani e liberi.
A 16 anni ero velocissimo,
son sfuggito a un portiere
della Upper East Side.
Mi ha beccato a vandalizzare
il suo stabile,
neanche cose artistiche,
solo... stupide.
Fra tutti i generi, i giovani maschi
sono i più stupidi.
(Risate)
I 16 anni sono stati una serie di fughe
riuscite per un pelo
che non mai detto ai miei genitori.
Immagino che mio figlio
mantenga ben viva la tradizione.
16 anni, "The Low End Theory"
e Marvin Gaye a ripetizione.
16 anni, più giovane di Trayvon
e più vecchio di Emmett Till.
Alla Motorizzazione,
mio figlio fa la fila per diventare
ufficialmente un sospetto:
un giovane afroamericano al volante,
un semaforo mobile che segnala il pericolo
delle comunità che vengono dal basso.
In cima alla catena alimentare,
l'uomo non ha predatori naturali,
ma l'America agisce
per genetica, per istinto,
affamata di carne afroamericana.
L'America spara agli afroamericani
e poi gli passeggia attorno,
annoiata,
come un leone laconico
con una gazzella semi divorata,
labbra insanguinate...
"America and the Black Body",
cazzate da National Geographic.
Comunque, passa l'esame
alla motorizzazione.
Cammina spavaldo,
con quelle mosse slegate da Fortnite,
mentre va a completare i documenti,
gioia pura e calma calcolata
mentre lo filmo col mio iPhone,
la danza della vittoria di chi
è appena riuscito a pareggiare.
Se l'è meritato, ma è così sedicenne
che non può lasciare il suo corpo
completamente libero.
Quando aveva tre anni,
mi son trovato ammanettato
in centro a Oakland.
Cinque minuti prima, avevo
parcheggiato in divieto di sosta.
Nel retro dell'auto di pattuglia, pensavo
alle probabilità che avevo di morire
lì, a 15 minuti di distanza da mio figlio
che si aspetta che entro 18 minuti
il papà lo vada a prendere all'asilo.
Non c'erano telecamere tascabili
per catturare l'attimo.
Ho imparato un sacco di paroloni
a 16 anni, preparando gli esami SAT,
ma adesso non me ne ricordo
neanche uno.
Nell'auto della polizia, l'unica cosa
che parla davvero è la mia pelle.
Questo è quello che so:
ho parcheggiato in una zona per i bus
tra la dodicesima e Broadway,
son corso al bancomat all'angolo.
Ho preso i soldi mentre s'accostava
un'auto della polizia,
ho detto: "Cavoli, colpa mia",
con aria da afroamericano onesto.
Lui aspetta che io salga in auto
e poi accende la sirena,
prende la mia patente
con la mano sulla pistola,
torna dopo due minuti, arma puntata,
un'altra pattuglia, quattro sbirri,
mi trovo faccia a terra, mani
dietro la schiena, ammanettato.
Sono furioso e umiliato finché
non mi spavento, poi divento triste.
Inspiro come fosse
il mio ultimo respiro prima di morire.
Penso a quanto aspetterà mio figlio,
prima di capire
che papà non arriva.
Penso che l'ultimo vago ricordo,
che avrà di me
sarà la storia di come
non sono mai andato a prenderlo.
Cerco di salutarlo telepaticamente.
Il silenzio non mi porta pace.
La calma rende difficile rilassarsi.
Nel nulla la rabbia prolifera come muffa
sul fondo muschioso dei miei pensieri,
ammuffisce la tempra
della mia tentata libertà.
Son libero da tutto
eccetto che dallo sdegno,
lo spirito di un civile disarmato
in tempo di disordine civile,
niente pace, ma il falsetto di Marvin Gaye
arcuato come l'ala spezzata di un passero,
che gareggia con le sirene vacue,
cantando della polizia.
Sembra cercassero un tipo di Richmond,
ma quando lo sbirro contatta la centrale,
il tonto non capisce "Marc Joseph",
capisce "Mike Johnson".
Adesso conto sette auto
e 18 sbirri all'angolo,
un branco che accerchia
mezzo chilo di carne.
Grazie a Dio, oggi
non sono andato in pasto alle bestie.
Con magnanimità,
il primo sbirro mi fa la multa
per aver parcheggiato in zona bus,
prima di liberarmi.
Il ragazzo ha 16 anni.
Ha la patente per guidare
in questa città falsa,
grande abbastanza
da riempire le mie scarpe.
Io ho una barba brizzolata,
e dice la verità.
Lui può guidare nel traffico
nell'era dei veicoli autonomi.
Sapete, la gente fa "un bel discorso",
come fosse qualcosa
che accade una volta sola,
come se sparisse dalla mia memoria
e internet non funzionasse,
come se non leggessi
dei martiri quotidiani,
come se oggi non amassi
abbastanza mio figlio
da dirgli: "Non m'importa
proprio niente dei tuoi diritti.
Il tuo obiettivo è tornare a casa da me.
Vivi per raccontarmi la storia, ragazzo.
Torna a casa da me."
Il discorso di oggi è
perlopiù nella mia mente,
mentre prende l'autostrada
e alla radio c'è Marvin Gaye.
Porto ai piedi le scarpe di mio figlio,
e il ritornello che ho in testa è l'addio
che quasi non gli ho mai detto,
un addio lungo quanto un requiem,
un bacio, l'odore del suo collo,
la lunghezza di una rivelazione
e una richiesta che sale su
nel cielo amico
senza mai lasciare la terra.
Il mio dolore è un rigo di walking bass,
una ripresa, una tensione smorzata
sullo sfondo del basso decrescente.
Sentite, non voglio fare il romantico,
ma voglio asserire uno scenario plausibile
per l'attimo esistenziale.
Guidare da afroamericano
è un'esperienza a sé.
Chiedete a Marvin.
Forse non è la ragione
che ti fa cantare come un angelo,
ma certo spiega perchè il paradiso
presta ascolto alla tua voce.
Il ragazzo guida, lo sbirro
nello specchietto retrovisore
è un giro in giostra oppure la morte.
Quando fai "un discorso"
a un ragazzo nero,
preghi che sia uno dei pochi
che sopravvivono.
Lo regolate sulla frequenza
del vostro addio telepatico,
gl'incanalate l'amore prolungato
del registro superiore di Marvin
sotto al cranio.
La miglior musica afroamericana
è un buco nero che è esploso
rispondendo alla chiamata
di un'America al suo peggio.
Abbatteteci, la musica vive,
oscura, come l'asfalto o il tabacco
o il cotone nell'acqua fangosa.
Torna a casa da me, figliolo.
Come un amore supremo,
un dio che è amore,
un amore prevale,
piume per l'ascesa angelica
dei morti irrequieti,
la colonna sonora di un uomo preoccupato,
o di un sedicenne, libero di sbagliare
e di sopravvivere agli errori,
di crescere grazie a loro,
santo, santo, pietà, pietà per me,
pietà,
pietà.
Grazie.
(Applausi).