Il perdono, un sentimento celebrato da millenni da filosofi, teologi e leader religiosi. Spesso descritto come un atto nobile, umanitario, capace di elevare moralmente lo spirito dell'uomo. Eppure, così difficile da sentire, specialmente quando il responsabile si è reso colpevole di atti gravi, che non possono, e non devono, essere giustificati o dimenticati. Nei prossimi minuti, vorrei parlarvi delle origini di questo sentimento, e rivelarvi in che modo, credo, possa e debba essere sviluppato, anche quando la gravità della situazione può renderlo difficile e controverso. Perché penso che il perdono debba essere sviluppato? Sicuramente, abbiamo tutti vissuto l'esperienza di essere trattati ingiustamente, qualche volta. Magari siamo stati abbandonati da un caro amico, nel momento del bisogno, oppure traditi da una persona che amavamo molto. Come ci siamo sentiti, in quel momento? Probabilmente, la tristezza, la rabbia e il risentimento hanno iniziato a tormentarci, e magari abbiamo anche iniziato a desiderare di vendicarci contro chi ci ha ferito. Chi hanno danneggiato, però, questi sentimenti? Le persone che ci hanno fatto del male, oppure soltanto noi stessi? È su questa domanda che vorrei riflettere con voi oggi, perché sono convinta che, come disse una volta il grande scrittore americano Mark Twain, "La rabbia è un acido che può provocare più danno al contenitore che la custodisce che a qualsiasi oggetto sul quale venga versato". Ma qual è l'origine della rabbia? E se ci provoca tanto danno, come possiamo superarla? Ricerche condotte nel campo della psicologia sociale hanno dimostrato che rabbia e risentimento scaturiscono, principalmente, dal modo in cui spieghiamo le azioni di chi ci ha ferito. Secondo questi studi, quando ci troviamo nella posizione della vittima tendiamo a dipingere erroneamente chi ci ha fatto del male come una persona fondamentalmente cattiva. Per esempio, l'amico che ci ha abbandonato è descritto come un opportunista, il genitore che ci ha fatto un torto, come un egoista, e il nostro marito e nostra moglie che ci ha tradito come un infedele. Al contrario, però, quando siamo stati noi a tradire qualcuno, o a ferire qualcuno in qualche modo, in genere tendiamo a dipingere le nostre azioni come risultato di accadimenti esterni e circostanze al di là del nostro controllo. Per esempio, ci giustifichiamo dicendo che la nostra è stata soltanto una reazione al comportamento negativo dell'altro, oppure che in quel momento eravamo sotto stress, o che stiamo attraversando un periodo difficile. La ricerca dimostra, quindi, che le persone tendono ad attribuire, erroneamente, il comportamento degli altri a caratteristiche fisse della loro personalità, e il proprio comportamento a circostanze esterne. Gli esperti chiamano questa tendenza "errore di attribuzione". La mia idea è che, se vogliamo lasciare andare la rabbia e il risentimento che ostacolano lo sviluppo del perdono, dobbiamo correggere l'errore di attribuzione. Secondo questa idea, quindi, l'errore di attribuzione è uno dei principali ostacoli al perdono, e la causa di molti conflitti che ci tengono separati l'uno dall'altro, sia a livello individuale che a livello collettivo. A livello individuale, queste tendenze portano a una separazione concettuale tra il sé e l'altro. L'altro diviene il sito delle nostre proiezioni negative, viene rappresentato come qualcosa di diverso dal sé, come un entità separata che non merita rispetto. Ferendo i nostri sentimenti, e sfidando i nostri valori, l'altro perde la sua dignità di essere umano. E può essere, quindi, trattato di conseguenza. A livello collettivo, queste tendenze psicologiche portano da un lato a guerre e scontri interminabili, come il conflitto israelo palestinese, la guerra civile in Siria e il terrorismo. Dall'altro portano alla creazione di sistemi di giustizia eccessivamente punitivi, che prevedono pene carcerarie severe e prolungate anche per crimini minori. Eppure, come dimostrano gli altissimi livelli di recidiva registrati tra i condannati in vari paesi del mondo, queste misure punitive non sono in grado né di trasformare il comportamento dei trasgressori, né di porre fine ai conflitti sociali e creare un mondo più sicuro. Allora forse dovremmo chiederci: la punizione e il carcere sono davvero gli unici sistemi a nostra disposizione per fare giustizia? O esiste forse una maniera alternativa? In effetti, esiste una strada alternativa. Una strada che sfida le nostre idee prestabilite su come gli individui, e la società, dovrebbero rispondere alla violenza e al conflitto. Secondo questa idea, se l'obiettivo è di portare pace e armonia nella nostra società, i trasgressori devono essere aiutati a sviluppare l'empatia verso le loro vittime, e a capire il danno che le loro azioni hanno provocato. A loro volta, le vittime devono essere aiutate a sviluppare la compassione e il perdono verso i trasgressori, nonostante la difficoltà della situazione. Ma perché le vittime dovrebbero aspirare a perdonare chi gli ha fatto del male? La ricerca psicologica ha dimostrato che trasformare rabbia e risentimento in compassione e perdono contribuisce positivamente al benessere psicologico e alla salute fisica delle vittime nel processo. I sostenitori del modello tradizionale di giustizia sostengono, però, che perdonare chi ha commesso un crimine è irrispettoso nei confronti del dolore della vittima e dei valori della società. A mio avviso, però, queste critiche si basano su un'idea della relazione tra il trasgressore e l'atto criminale che non riconosce la fondamentale giustificazione morale del perdono. Infatti, mentre il sistema tradizionale tende a identificare il peccato col peccatore, per riuscire a perdonare senza però giustificare dobbiamo separare l'atto criminale, che può essere condannato, dalla persona responsabile di tale atto, che può invece essere perdonata. Condannando il crimine ma non la persona, da un lato manteniamo intatto il rispetto per il dolore della vittima e i valori della società e dall'altra aiutiamo il trasgressore a non identificarsi con il suo errore, e la vittima a perdonare il suo malfattore. È sostenendo la separazione concettuale tra il crimine e la persona che il ruolo del sistema giudiziario può risultare determinante per lo sviluppo del perdono. Ma il nostro sistema giudiziario è in grado di sostenere questa separazione concettuale? Nel modello retributivo tradizionale, l'equilibrio della bilancia della Giustizia si ottiene infliggendo una punizione al trasgressore commisurata al danno sociale provocato dal crimine. Secondo alcuni critici, focalizzandosi esclusivamente sull'azione da compiere nei confronti del trasgressore, il modello tradizionale tende a ignorare i bisogni delle vittime, nel processo. Infatti, privando le vittime di una voce nel procedimento, il sistema penale tende a negare loro la possibilità di esprimere i propri sentimenti e le proprie paure. E di superare, così, il trauma provocato dall'evento. Per risolvere questo problema, questi critici propongono un modello alternativo di giustizia, basato sulla riparazione del danno provocato dal crimine alle vittime e alla società, anziché sulla quantità di punizione da imporre al trasgressore. [GIUSTIZIA RIPARATIVA DANNO - RIPARAZIONE] Ci sono vari metodi per implementare questo modello: ma quello che sicuramente ha avuto più successo è la conferenza riparativa. La conferenza riparativa cerca di riunire le vittime, i trasgressori e i loro familiari per tovare insieme una soluzione costruttiva ai danni provocati dal crimine, aiutati da un mediatore imparziale - in genere, un agente di polizia. Mentre il sistema tradizionale si basa su una relazione antagonistica tra lo Stato e i trasgressori, le conferenze riparative cercano di creare una relazione di cooperazione tra tutte le parti coinvolte, in una dinamica di carattere circolare. La mia idea è che, mentre l'approccio antagonistico del sistema tradizionale raramente stimola il condannato a chiedere scusa, e le vittime a perdonare, la natura cooperativa e circolare della conferenza riparativa crea l'ambiente ideale affinché avvenga questo scambio. Questa idea si basa su una serie di studi, condotti in Australia e Nuova Zelanda, che hanno dimostrato le straordinarie potenzialità trasformative di questo modello. Come abbiamo visto, per esempio, per riuscire a perdonare la vittima deve riuscire a separare l'identità del criminale dal suo comportamento. Per esempio, identificando le circostanze esterne che possono aver contribuito alle sue azioni. Gli studi australiani, e neozelandesi, dimostrano che la maggioranza delle conferenze riparative sono in grado di sostenere questa separazione concettuale: infatti, quasi il 70 percento delle vittime intervistate in Nuova Zelanda descrivevano il trasgressore con una persona fondamentalmente buona che aveva però compiuto un'azione sbagliata, mentre le vittime intervistate in Australia raramente disapprovavano il trasgressore come persona. D'altro canto, come abbiamo visto, per riuscire a chiedere scusa i trasgressori devono riuscire a sviluppare l'empatia verso le loro vittime e a capire il danno che le loro azioni hanno provocato. Gli studi australiani dimostrano che le conferenze riparative sono più efficaci dei processi penali tradizionali nel facilitare questo tipo di trasformazione. Infatti, mentre nei processi penali tradizionali soltanto il 19 percento delle vittime riportava di aver ricevuto delle scuse, nelle conferenze riparative queste percentuali schizzano al 72 percento. Questo dato è molto significativo, perché la ricerca ha dimostrato che le vittime sono molto più inclini a perdonare quando ricevono delle scuse, come possiamo anche immaginare. Infine, per riuscire a perdonare, le vittime devono riuscire a lasciare andare la rabbia e a sviluppare la compassione verso i trasgressori. E ancora una volta, gli studi condotti in Australia dimostrano l'efficacia della giustizia riparativa per sostenere questa trasformazione emotiva. Infatti, mentre prima delle conferenze riparative il 63 percento delle vittime provava rabbia verso il trasgressore, dopo le conferenze queste percentuali si dimezzano, calando drasticamente al 29 percento. Viceversa, se prima delle conferenze riparative soltanto il 19 percento delle vittime provava compassione verso il trasgressore, dopo le conferenze queste percentuali raddoppiano, raggiungendo il 48 percento. Come dimostrano questi studi, quindi, se completata con successo, una conferenza riparativa può contribuire alla creazione di una nuova relazione tra la vittima e il criminale. E, col tempo, portare al perdono e alla riconciliazione. Alcuni critici sostengono, però, che la giustizia riparativa è basata su idee un po' ingenue e utopistiche. Essi enfatizzano l'egoismo che pervade molte relazioni sociali, sostenendo che queste smentiscono la fiducia nelle doti empatiche dell'uomo su cui si basa questo modello. La ricerca psicologica e sperimentale dimostra, però, che se trattiamo le persone in modo onesto queste saranno a loro volta più inclini a comportarsi in modo onesto. Se le trattiamo come se fossero affidabili, queste saranno a loro volta più affidabili. E se diamo loro una responsabilità attiva queste la assumeranno in maniera costruttiva. Fidarsi della capacità umana all'empatia non è quindi ingenuità, ma una scelta basata su un accurata osservazione dei dati a nostra disposizione. La giustizia riparativa non è neanche una proposta utopistica. Anzi, questo modello è oggi sviluppato in vari paesi anglosassoni, come gli Stati Uniti e l'Inghilterra, in paesi devastati dalla guerra civile, come la Rwanda, e in varie altre parti del mondo, tra cui anche l'Italia. Nonostante questi progressi, però, siamo ancora a uno stato embrionale. Il sistema giudiziario è oggi più che mai pieno di problemi: per esempio, come molti probabilmente sanno, negli ultimi anni abbiamo assistito a una crescita esponenziale nel numero di carcerati e altissimi livelli di ricaduta dopo il rilascio. Etichettando i trasgressori come criminali, li abbiamo di fatto spinti a identificarsi con le loro azioni, impedendo ogni possibilità di cambiamento. Al contrario, se riusciamo a separare l'identità del criminale dalle sue azioni, e a ripensare che cos'è la giustizia e che cosa vogliamo ottenere attraverso il suo utilizzo, possiamo creare un modello alternativo che miri non tanto all'inflizione della pena, quanto al benessere e alla maturazione di tutte le parti coinvolte: vittime, trasgressori e collettività. Fino ad oggi, ci siamo sempre chiesti: quanta punizione dovremmo infliggere per questo crimine? E se invece iniziassimo a chiederci: che cosa possiamo fare, per ristabilire l'armonia perduta? Grazie. (Applausi)