Diciotto minuti per cercare di parlare del buon uso del mondo, quando - a poca distanza dal quale - abbiamo distrutto il nostro mondo, della Liguria, di Genova. 18 minuti non per parlare di fotografia ma per parlare, per cercare di convincerci, se ce la farò, di come piccole e grandi fotografie, o grandi e piccole fotografie, possono portare un piccolo cambiamento sociale e cambiare non il mondo ma dei mondi. 17 minuti e 30 secondi adesso, per parlarvi della nascita di questa mia idea, della fondazione di Shoot4Change di come l'ho avuta, di come l'ho sviluppata, di come sta crescendo e di come si sta consolidando. Shoot4 Change nasce, in realtà, quasi per caso, come spesso accade alle, ex post, buone idee, nasce con un blog. Provenendo da una vecchia tradizione, una vecchia storia di blogging e di fotografie di viaggio, comincio, subito dopo il terremoto a L'Aquila, e poco prima dell'avvio della "Marcia Mondiale per la Pace e la non Violenza" due anni fa, a bloggare sul potenziale di cambiamento sociale delle grandi fotografie del passato. In poco tempo, comincio a creare una community, anche se non ne avvertivo la presenza. In concomitanza, appunto, con la Marcia Mondiale per la Pace e la non Violenza partita da Oakland due anni fa, mi contattano gli organizzatori, da Oakland, della marcia, e mi chiedono di poter coprire fotograficamente il passaggio della marcia nella tappa di Roma. Avendo poi altre vite parallele, perché Shoot4Change è la vita, la seconda vita parallela. Certe volte mi sento non tanto quanto come Clark Kent e Superman ma più come Paperino e Paperinik o Pippo e Superpippo, per le vite parallele, le vite a castello che conduco. Mi chiedono quindi di fotografare il passaggio della marcia, io ricordo che non potevo, in quel giorno a Roma, e faccio un post che adesso affettuosamente ricordo di aver chiamato, probabilmente anche in maniera un po' troppo provocatoria, "Chiamata alle Armi Fotografiche". Vedete come questo ossimoro ritorna spesso nella nostra terminologia. Già Shoot4Change è un ossimoro, perché in inglese "shoot" significa, allo stesso tempo, scattare una fotografia ma anche sparare, e change è il cambiamento sociale ma anche i soldi. Tanto è vero che, all'inizio, alle prime settimane di vita del nostro network, che è diventato un network internazionale di volontariato - avevo un grosso picco di accessi da Washinghton. Evidentemente pensavano, temevano, che fossimo un gruppo di mercenari che sparavano per soldi. Poi si sono tranquillizzati, e hanno capito che, in realtà, siamo solamente dei poveri fotografi di strada. Quindi ho fatto questa "chiamata alle armi" fotografiche, e in poche ore mi hanno letteralmente intasato la casella postale, da tutta Italia, e siamo riusciti in pochi giorni a coprire fotograficamente non solo Roma, non solo Milano ma gran parte del nord Italia fino ad arrivare a Lecce. New York, San Francisco, fino ad arrivare alla fine in Argentina - su dei picchi delle montagne dell'Argentina - dove la marcia ha concluso il suo cammino. Bene, lì ho capito che forse si poteva fare qualcosa. Ho capito che la gente aveva voglia di scendere per strada e raccontare la propria storia. Le proprie storie, dal proprio punto di vista. Allora abbiamo cominciato, continuato a bloggare, chiedendo alla gente di - non solo di raccontarci le loro storie di prossimità - uno dei nostri slogan, dei nostri claim è "Shoot Local, Change Global"- ma di venire a farlo con noi, o di chiederci un aiuto quando non fossero stati in grado di farlo da soli. Uno dei messaggi che cerco di dare, che cerchiamo di dare, con le nostre attività e con i nostri reportage è non solo di par - ma di non illudersi, di doversi mettere necessariamente nei panni del grande fotografo del National Geographic - che peraltro molti di loro sono nostri membri volontari, da Ed Kashi a New York per National Geographic USA, a Alfonso Rodriguez, National Geographic Spagna, e altri grandi professionisti - ma che al grido "Shoot Local, Change Global" è sufficiente scendere sotto casa, magari armati di una macchina fotografica compatta, o di uno smartphone, e raccontare le storie di prossimità. Quello che abbiamo chiamato la "Fotografia Sociale a Kilometri Zero". Da qui il claim "Shoot Local, Change Global". La finalità , o meglio alla fine il risultato che abbiamo ottenuto e che stiamo ottenendo, e che stiamo consolidando, è un invito alla sensibilizzazione ad un'osservazione più puntuale e più - scusate il gioco di parole - sensibile, della realtà che ci circonda, chiedendo alla gente di prendere parte attiva a un cambiamento. Per noi, il nostro concetto di fotografia sociale non è solamente stimolare, dare un cazzotto nello stomaco dell'osservatore facendo leva sulla classica estetica del dolore, la drammaticità delle immagini, delle tragedie. Noi chiediamo di portare un contributo. E soprattutto cerchiamo di raccontare quelle storie positive, ordinarie o straordinarie, che nel nostro piccolo, dietro casa, portano un sollievo, un beneficio nelle situazioni di disagio sociale. Ci sono una miriade di storie. Di tantissime piccole, o piccolissime, o minuscole, in alcuni casi associazioni di volontari che nessuno conosce. Noi raccontiamo gratuitamente, ci prestiamo gratuitamente a realizzare servizi professionali fotografici a chi non se lo può permettere. Dando quindi accesso, in una logica di vero "citizen journalism" all'informazione, a tutte quelle storie che non vengono considerate remunerative dall'informazione Main Stream, e sono tantissime. Alcuni ci hanno accusato all'inizio soprattutto, di essere quelli che lavorano gratis e che distruggono il mercato, e distruggono le agenzie fotografiche, o i giornali, perché lavorano gratis. Non è così. Io rispondo spesso a queste persone: "Ma tu racconteresti mai la storia di un centro per senza dimora?" Dicono: "No". "E perché no?" "Perché non me le comprerebbe nessuno." E noi lo facciamo. "Entreresti mai in un centro per rifugiate?" "No, non lo farei mai perché nessuno mi comprerebbe quelle fotografie." Noi lo facciamo. E col tempo ho sviluppato questo concetto di Crowd Photography. Ricordo spesso,cito spesso in occasioni del genere, il vecchio e famoso detto africano: "Se vuoi andare veloce, vacci da solo. Se vuoi andare lontano, vacci con altri". Normalmente, un fotografo va bene per raccontare una storia. Due fotografi vanno meglio. Tre fotografi sono ancora meglio. Quattro forse sono ancora meglio. Poi si comincia a fare casino ovviamente. Però più si è meglio è, perché ogni storia ha almeno 360 gradi, 360 punti di vista per essere raccontata. E questo arricchisce il racconto. Il concetto di Crowd Photography, è un concetto in base al quale quasi tutti i nostri progetti - noi ci proviamo, non sempre ci riusciamo - sono il risultato dell'apporto creativo di persone che magari non si conoscono. E credetemi, il nostro metodo, sta crescendo e si sta consolidando, non solamente con i fotografi, ma con creativi di tutti i generi. Abbiamo pittori, abbiamo designer che ci regalano i loghi. Abbiamo musicisti che compongono e ci regalano le musiche per i nostri Slide Show. Abbiamo giornalisti, abbiamo scrittori. Abbiamo tutti quelli che hanno voglia di mettere le idee in rete e condividerle, e aggiungere un tassello alla storia, con le loro idee. Cerchiamo di essere non convenzionali, nei nostri racconti. Anche qua, spesso ci riusciamo, a volte non ci riusciamo. Ad esempio - questo è giusto un esempio che vi ho portato - può una foto di un cavallo, o una serie di foto di cavalli denutriti, raccontare la recessione economica in Europa? Sì. Questo è un reportage che un nostro membro italiano - ma vive da tantissimi anni, giovanissimo, in Irlanda - non è mai riuscito a piazzare a Dublino in alcuna rivista, perché in Irlanda non vogliono parlare di queste storie sociali perché, dicono le riviste, danno un'immagine distorta dell'Irlanda. Lui ha scoperto che una delle conseguenze inaspettate della recessione economica è che gli irlandesi, che tipicamente sono sempre stati molto propensi ad acquistare i cavalli, quindi a vivere l'outdoor in maniera molto piena, vendono, o meglio svendono i loro cavalli in alcune fiere gestite dalla malavita irlandese nei sobborghi di Dublino. E li vendono a 20, 30, 40 euro cavalli già malnutriti. I ragazzini ovviamente, spinti dall'entusiasmo, li acquistano o li barattano con cellulari; salvo poi, dopo due o tre giorni, non potendo più permettersi la gestione, non sapendo dove metterli, ovviamente, in casa, li abbandonano nelle periferie di Dublino. È una storia che nessuno voleva comprare. Noi l'abbiamo pubblicata. Ha fatto il giro di internet, ed è una maniera non convenzionale di raccontare un episodio, purtroppo, di cronaca mondiale, come la recessione economica. Ma facciamo anche cose non tristi. Raccontiamo non solo torie tristi ma anche storie molto positive. Questa è una dei mille esempi di progetti che noi teniamo ogni giorno. Insieme all'associazione sportiva Liberinantes, che noi seguiamo da anni, ormai, a Roma. È un'associazione composta da rifugiati politici e richiedenti asilo, che usa lo sport per affrancarsi dal ricordo delle tragedie dalle quali scappano. Siamo entrati in un centro di accoglienza a Roma, La Casa di Giorgia, composto da rifugiate, che da accoglienza a rifugiate, donne, e richiedenti asilo, e abbiamo scoperto che queste donne, queste ragazze, non erano mai state nel centro di Roma nonostante fossero arrivate a Roma già da mesi - in alcuni casi anche da un anno - per paura del traffico, della città, dell'inquinamento, degli italiani. Erano imprigionate nella loro gabbia, che si erano auto costruite, di luoghi comuni. Allora noi le abbiamo divise in vari gruppetti, abbiamo regalato a ciascuna di loro delle macchine fotografiche compatte, le abbiamo fatte affiancare da alcune nostre ragazze fotografe, anche per una questione di maggiore facilità di raggiungere una fase di empatia tra docente e allievo. Gli abbiamo insegnato, grossolanamente e velocemente, a usare una macchina fotografica; e siamo andati in giro con loro nell'arco di un mese e mezzo tutti i fine settimana a Roma, portandole letteralmente con noi, trascinandole con noi. Si sono divertite tantissimo. La macchina fotografica con la quale, poi, hanno raccontato la loro Roma, e stato un filtro che le ha concentrate a guardare Roma attraverso una scatoletta. La tesi del nostro progetto è che una città che conosci è una città che col tempo riconosci e una città che riconosci -anche attraverso le tue stesse fotografie - è una città nella quale trovi un livello di fiducia tale che ti consente di ricreare e di riappropriarti di alcune dinamiche sociali e quindi di inclusione. La piccola mostra fotografica che abbiamo lanciato dopo questo progetto ha fatto il giro di Roma, e comincerà a girare adesso per l'Italia. È stato un successo enorme, ce lo stanno chiedendo in tantissimi altri centri. Queste piccole fotografie, forse, hanno cambiato il loro mondo. Adesso cercherò nei pochissimi minuti - che non vedo più, tra l'altro, sullo schermo - che mi rimangono, sette minuti e 48 secondi, di smantellare il concetto. Probabilmente non è vero, vi ho detto delle fesserie, la fotografia non cambia il mondo. Invece, questa persona per esempio, l'ho conosciuta nella "città dei morti" a Il Cairo, qualcuno forse la conoscerà, è il vecchio cimitero monumentale del Cairo dove nel corso degli anni centinaia di migliaia di persone, in gran parte proveniente dalle prime ondate di profughi palestinesi, anni fa, ha trovato alloggio nelle tombe, nei mausolei del vecchio cimitero monumentale del Cairo, creando una vera e propria società all'interno del Cairo. Il Cairo considera queste persone dei reietti della società, li considera immorali perché vivono tra i morti. Loro hanno ricreato un loro ecosistema, un loro ambiente sociale assolutamente in equilibrio. Eppure non esistono, per gli altri. Questa persona vive lì. Aveva cominciato come custode di questo mausoleo, e negli anni si è trasferito a vivere in questa tomba con la sua famiglia. Ho scattato una fotografia, ha fatto il giro di internet, non ha cambiato né il mio, né il suo mondo né il mondo in generale: io sono tornato e lui è ancora lì. Anche queste persone vivono nella città dei morti, e quando le ho chiesto di fargli un ritratto fotografico questa signora anziana col nipotino si è messa in posa vicino a questa tomba, diciamo la tomba di famiglia nel loro cortiletto. Io ho chiesto se fosse un loro parente, e mi hanno detto no, non è un nostro parente. Ma viviamo qua da tanti anni, è come se lo fosse ormai. Vorremmo un ritratto con lui". Questa mia fotografia non ha cambiato il loro mondo, loro vivono ancora lì tra i morti. Quest'altra persona, invece, è Sergei. Sergei vive in un centro di accoglienza per senza fissa dimora. Già questo dal punto di vista semantico è una cosa che mi fa imbestialire. Abbiamo bisogno di definire una persona per quello che non ha, invece che per quello che ha: senza fissa dimora. È russo. Da tanti anni, ormai, è in mezzo a una strada e non parla più della sua famiglia. Quando mi ha chiesto un ritratto, mi ha chiesto di fargli un ritratto a metà perché dice che gli manca qualcosa nella sua vita, ovviamente gli manca tantissimo. Sono tornato a casa, lui è ancora lì. Questa foto, probabilmente bella o non bella, ha fatto il giro di internet, non ha cambiato il suo mondo. Anche Carmine vive in quel centro d'accoglienza. Vive in un mondo tutto suo: dice che coltiva api, ama le sue api, non parla più della sua famiglia, si chiude in un silenzio imbarazzante quando gli si chiede la sua storia. Questa foto non ha cambiato il suo mondo, vive ancora per strada. Ci sono tanti esempi, accelero un pochettino. Queste sono delle foto delle barche, dei trabiccoli, con i quali i profughi dal Medio Oriente arrivano a Lampedusa. E continuano ad arrivare ogni giorno. Scappano dalle loro situazioni, dalle loro tragedie umane e sociali. Questa foto non ha cambiato il loro mondo, e continuano ad arrivare, eppure l'ho raccontata. Non è servito a niente. Questa persona vive invece in un campo profughi di Bourj el-Barajneh, nella periferia di Beirut. È un Campo profughi grandissimo, ma che non è mappato nella carta di Beirut. Lui vende, al caldo, gira per il Campo vendendo gelati e coni gelato. Suda, suda tantissimo. Cammina e vende gelati in un campo dove tutti crescono senza diritti sociali. Questa foto non ha cambiato il suo mondo. Lui è ancora lì che vende, proprio in questo momento - beh adesso starà dormendo, ma domani mattina si alzerà e continuerà a vendere gelati. Nello stesso Campo ho conosciuto questa bambina. Per lei quel Campo Profughi, mi raccontava - cioè mi traducevano - era il suo grande parco giochi. Lo trovava smisurato, enorme. Non sa ancora che sta crescendo senza nessun diritto in un Campo neanche, come vi ho detto, mappato, nella città di Beirut. Probabilmente rimarrà là tutta la sua vita, senza diritti. Questa foto, non solo non ha cambiato il suo mondo adesso, ma non l'avrà cambiato neanche nei prossimi 20, 30 o 40 anni. Quindi il loro mondo non è cambiato. La fotografia, probabilmente, non è servita a niente. Le mie fotografie sono state un buco nell'acqua e probabilmente hanno semplicemente assolto al loro compito di solleticare il mio egocentrismo nel mostrarvele dopo. Peraltro un fattore molto tipico di noi fotografi, essere piuttosto egocentrici. Loro sono ancora lì. Quello che invece, probabilmente, è cambiato, è nel chi ha scattato la fotografia. Perché io sono tornato, io adesso conosco quelle storie. So che loro, domani mattina, si alzeranno e sono ancora lì. So che c'è qualcuno che vive ancora là sotto, per strada, dietro l'angolo di casa mia. So che se voglio scendo e ci sono mille situazioni di disagio sociale che posso, e devo raccontare. Quindi, voi adesso - in qualche maniera vi ho fregato, perché vi ho detto che la fotografia sociale non cambia il mondo; ma vi ho raccontato delle storie, quindi anche voi adesso le conoscete. Perché, come diciamo spesso anche noi, ci sono storie che devono e possono essere raccontate. E probabilmente è il raccontare queste piccole grandi storie, chiedendo alla gente di scendere per strada e raccontarle con noi, che cambia il mondo alla fine. Questo è il nostro concetto di buon uso del mondo. È un buon uso, non di persone naif. Non siamo sognatori, non siamo idealisti, non siamo attivisti, noi non prendiamo parte nei cambiamenti sociali, nei movimenti politici ecc ecc. Noi raccontiamo le storie. Lo facciamo in maniera neutra, neutrale e gratuita per chi non se lo può permettere. Perché ci sono storie che devono essere raccontate, storie che vogliono essere raccontate e storie che devono essere conosciute. Grazie. (Applausi)