Immagino che quasi tutti
abbiate sentito il consiglio,
spesso attribuito a Eleanor Roosevelt:
"Fai ogni giorno
una cosa che ti spaventa".
Ecco, io ho appena messo
una grande spunta.
(Risate)
Non sono una fan del public speaking.
Ma giusto per aumentare la mia angoscia,
ho deciso di raccontarvi
un po' della mia storia,
anche se non è proprio tutta rose e fiori.
Ma ci porta direttamente
a una storia molto più grande,
quella di un piccolo
ma potente gruppo di donne
che si sono messe insieme
prendendosi il grande impegno
di fare parte del gruppo per l'emergenza
dipendenze nella nostra comunità.
Non pretendo
di essere un'esperta in materia,
ma sono stata in un luogo
in cui molti si sono persi,
e alcuni non sono mai tornati.
Ed è un inferno che mi ricorda
che mentre è importante
che parliamo di argomenti
come il Vivitrol e la disintossicazione
e informazioni sullo scambio di aghi,
e via dicendo,
è altrettanto importante
parlare di quando la guarigione
incrocia la speranza e l'intenzione.
Quindi comincio
da quando la mia storia
d'amore decennale con l'alcol
era quasi finita,
e avevo incontri occasionali
con altre sostanze.
Era il primo venerdì
di Settembre del 1978.
Il medico entrò nella mia stanza
d'ospedale dicendomi: "Oggi vai a casa".
E io pensai: "Non posso andare a casa
lontano dalla mia vera casa",
cioè dal bar all'angolo,
non perché pensassi
di avere un problema di alcol,
no, semplicemente mi sentivo
del tutto umiliata.
Non ero la tipa tosta
che impersonavo con i miei amici,
o che pensavo di impersonare.
Vedete, il lunedì precedente
mi ero svegliata
con il più fantastico
e brillante cielo azzurro,
con enormi nuvole gonfie
che arrivavano fino all'orizzonte.
Ed era un panorama
che un tempo mi avrebbe trasmesso
una fortissima sensazione di gioia.
La natura è sempre stata il mio tempio,
il luogo dove percepisco
un potere più alto,
la magia, il mistero dell'universo,
un balsamo curativo
per i momenti di difficoltà.
Ma quella mattina
non riuscivo a sentire nemmeno
una minima goccia di stupore.
Era da un po' che quel legame
si stava sciogliendo.
E quella mattina fu come
se l'ultimo filo si fosse spezzato
e allontanato da qualsiasi speranza
di potermi strappare via
dal punto morto dei miei pensieri cupi.
Decisi che la mia vita
non aveva nessuna importanza,
che mio figlio di quattro anni
sarebbe stato molto meglio senza di me.
È una cosa terribile da dire.
Andai nella stanza di mio cognato -
non c'era nessuno in casa -
presi dal cassetto la sua pistola carica,
e me la puntai alla tempia.
Non so quanto tempo rimasi così,
con la mano che mi tremava,
il dito pronto a sparare sul grilletto,
ma rimasi abbastanza a lungo
da avere i brividi ancora oggi.
Mi fermo, perché spesso
le persone che hanno lottato contro
una brutta depressione, mi dicono:
"Non ho avuto le palle per farlo",
quando parlano della possibilità
di togliersi la vita.
Non si tratta di palle.
Ma di disperazione,
impotenza, impulsività.
Io non feci ciò che avrebbe
richiesto coraggio:
non chiesi aiuto a nessuno.
Invece andai in bagno,
dopo aver messo giù la pistola,
presi una scatola di aspirine,
e le buttai giù tutte
con la birra che stavo bevendo -
a un certo punto la mia compagna
di stanza rientrò -
e io presi un'altra scatola
di aspirine e le ingoiai tutte.
Poi passai alla lama di un rasoio.
Il mio ultimo ricordo
di quella mattina in casa
è di schizzi di sangue dappertutto
sulle pareti della stanza di mio figlio
mentre mi mettevano a forza
su una barella.
Nel mio quinto giorno di ospedale
stavo tornando a casa
senza la più pallida idea
del perché mi trovavo là.
Cos'è questa follia?
E quella sera andai al bar
perché quando si è dipendenti si fa così:
si rifanno le stesse cose di continuo,
provocando la propria autodistruzione.
E si mente a tutti,
ma la bugia più grande
la si dice a se stessi:
"Niente di troppo grave.
Domani sarà diverso".
E la cosa più grande, più triste,
più tragica in tutto ciò
è che ci si crede.
Crediamo alle bugie che ci diciamo.
Fu solo parecchi mesi più tardi,
quando venni presentata
alla comunità di recupero,
che iniziai a capire
che l'alcol era diventato
il pezzo forte della mia vita.
Il mio rapporto con l'alcol
era il denominatore comune
che collegava i pezzi della mia vita.
Ripensai a quando avevo 14 anni,
quando a casa tutto era difficile,
mentre l'alcol era un gran divertimento,
e sembrava essere la risposta.
Era la soluzione a tutti i miei problemi,
ma quella soluzione
era diventata il mio problema.
In riabilitazione
mi avevano dato uno schema,
una specie di piano
su come orientarmi nella mia vita,
non solo su come evitare di ricominciare,
ma su come godermi il viaggio,
e stare in pace dentro alla mia pelle.
E da allora sono coinvolta
in quella comunità.
Non sarei onesta se,
facendo un salto temporale fino a oggi,
dicessi che ora è tutto a posto.
(Risate)
Si, dai: e visse felice e contenta.
No, negli ultimi 39 anni e oltre,
ho incontrato nella mia vita più sfide
che nei 10 anni precedenti.
Penso che Forrest Gump abbia detto bene:
"Capitano situazioni di merda", no?
a tutti noi.
È nella natura animale, è la vita.
Ma oggi ho questa cassetta degli attrezzi
che tengo sempre con me.
A portata di mano.
Tengo tutti gli attrezzi pronti,
sto attenta che non si arrugginiscano.
E una delle cose
che mi hanno aiutato tanto,
particolarmente all'inizio
quando ogni tanto
si presentavano altre difficoltà,
è un semplice mantra:
"Passerà anche questo".
E infatti passa sempre.
All'inizio mi dissero
che il migliore antidoto
contro la voglia di riprendere
era lavorare con qualcuno
che c'era ancora dentro.
E parecchi anni prima
mi era sembrato che il mio programma
avesse bisogno di un po' di vitamine.
Iniziai degli incontri settimanali
nel carcere regionale
dell'Ohio sudorientale
avviati dalla mia cara amica Cate.
Stavamo in cerchio con donne,
tutte in divisa arancione,
ognuna al suo punto di svolta,
ci passavamo un rotolo di carta igienica,
per le inevitabili lacrime.
Nella medicina di emergenza
c'è questo termine:
Golden Hour.
Sono i primi 60 minuti
dopo un incidente grave
nei quali è maggiore la probabilità
di sopravvivenza e di esiti positivi
se l'intervento si colloca
in quella finestra di tempo.
Queste donne hanno avuto
un diverso tipo di trauma.
Molte di loro ci dicono
che sono cresciute
in famiglie disfunzionali,
che sono state iniziate
alla droga dai loro genitori,
che hanno subito abusi fisici
e sessuali da piccole
e poi ancora, fino all'età adulta.
E senza nessuna sostanza anestetizzante
per alleviare il dolore,
sentono tutto;
quei ricordi,
la vergogna, la colpa e il rimorso
per gli errori fatti,
e lo strazio di essere separate
dai loro figli,
la paura del futuro.
Tutte quelle emozioni
portano alcune di loro,
non tutte, ma alcune, ad arrendersi:
"Non posso più vivere così.
Non posso più vivere così.
Devo cambiare.
Devo spezzare questo ciclo".
Quello è il nostro momento d'oro,
la nostra Golden Hour,
perché la psiche diventa fertile
per accogliere semi di speranza,
possibilità e incoraggiamento.
È matura.
Ma troppo spesso, ciò che mi rende
tristissima in questi incontri
è quando qualcuna svela il suo profondo
desiderio di cambiamento
ma non si sente sicura,
perché sa che tornerà esattamente
alla stessa casa, allo stesso quartiere
dove tutti quelli che conosce
fanno uso di sostanze.
Nel libro "Dreamland", Sam Quinones
ha spiegato in modo eccellente
come i nostri quartieri siano diventati
tanto esposti alla cultura delle droghe
a causa della disgregazione
del nostro tessuto sociale
dovuta a fattori economici.
Molti di quei fattori
permangono ancora oggi.
Le donne che escono dalla custodia,
dai centri di cura, dalle prigioni,
dai ricoveri per senzatetto,
dalle case protette,
hanno bisogno
di un ambiente sicuro, solidale
in cui perfezionare le abilità necessarie
per creare queste solide basi
per il proprio recupero,
non hanno solo bisogno
di tornare sobrie e pulite,
ma hanno bisogno di rimanere tali,
di uscire dalla routine della ricaduta.
Nella comunità c'erano altri
che cominciavano a capire
che avevamo assoluto bisogno
di alloggi per il recupero delle donne
nell'Ohio sudorientale.
Quando nel maggio 2016
venne diramato un invito all'azione,
il risultato fu uno sforzo collettivo.
Non ero da sola, come aveva detto Steve;
era un gruppo di donne,
di donne forti, aveva detto:
"Troveremo una soluzione".
Ed entro marzo 2017
eravamo una non-profit regolare:
Women for Recovery.
Entro luglio avevamo acquistato
la nostra casa, battezzata Serenity Grove,
e oggi abbiamo delle residenti,
una dipendente stipendiata,
delle volontarie impegnate
ad aiutare le donne
a intraprendere questo viaggio
alquanto spaventoso verso il cambiamento.
Il progetto è stato spaventoso
per tutte noi,
e qui penso di non parlare
solo a nome mio,
ci dicevamo: "Davvero possiamo
fare sì che diventi realtà?
Wow!"
Lungo il tragitto abbiamo incontrato
un po' di ostacoli,
ma il sostegno della nostra comunità,
di singoli e di enti,
ha rafforzato la nostra fiducia.
È stato fondamentale
per tenerci sulla strada giusta,
per tenerci concentrate sulla ricompensa.
Ho iniziato raccontandovi
una storia, la mia storia,
perché credo che il marchio legato
alla dipendenza e alle malattie mentali
crei questa atmosfera
per cui non possiamo parlarne liberamente.
Per chi si trova nella situazione
in cui ero, è difficile chiedere aiuto.
Ero -
In questa comunità,
un sacco di gente mi conosce
come "Janalee la runner" -
non vi dico le cose
che sono state dette -
io sono molto presuntuosa,
scrivo lettere ai direttori,
(Risate)
si, dai, tipico
di un'infermiera in pensione.
Ma sapete una cosa?
Questa Janalee, da ragazzina, si ritrovò
attaccata a un respiratore artificiale;
un'altra volta si svegliò
in ospedale, chiusa a chiave,
in una stanza con la porta
che non si apriva dall'interno,
su un letto senza lenzuola,
non c'erano mobili, finestre, niente.
Voglio che la gente come me sappia
che è possibile un cambiamento radicale
nella propria testa.
Non dobbiamo esser prigionieri
della dopamina.
Gli scienziati sanno molto di più
su come funziona il cervello,
e sanno che la dopamina
ci può rendere schiavi
del cibo, delle droghe, dell'alcol,
del sesso e del gioco d'azzardo,
ma ci sono neurotrasmettitori
che reagiscono all'esercizio fisico
e all'amicizia,
alla preghiera, alla meditazione
e alla natura.
Questi sono alcuni degli strumenti
nella mia cassetta degli attrezzi.
Il cambiamento fa molta paura,
ma, perbacco, ne vale la pena.
Ci deve essere la volontà
di lavorarci sopra.
Essendo l'overdose la prima causa di morte
degli americani sotto i 50 anni,
è abbastanza raro non conoscere nessuno
che ne sia stato vittima.
Penso che,
quando Eleanor Roosevelt consigliò:
"Fai ogni giorno
una cosa che ti spaventa",
non stesse parlando di fare una maratona,
o di scalare l'Everest -
cose che rischiano
di farvi venire un infarto.
Stava parlando del modo
in cui pensiamo e percepiamo
e apriamo i cuori e le menti.
Se non conoscete nessuna
colpita da queste sofferenze,
allora la sfida per voi
potrebbe essere quella di ripensare
al modo in cui ci vedete.
Ci etichettate?
Siamo delle perdenti? O peggio?
Quando una esce di prigione,
è destinata a portarne
per sempre il marchio?
Riuscite a dirle:
"Ti rispetto per tutto quello
che hai passato.
Non ho avuto la tua sfortuna.
Ho il privilegio
di non essere cresciuta come te.
E, ehi, ti rispetto
perché sei una sopravvissuta".
Ho un'amica che è stata
in prigione 10 anni.
Aveva tutta la mia stima.
Ma ho visto tutti gli ostacoli
che l'hanno sconfitta,
e oggi è tornata dentro,
con una pena da scontare.
E io la rispetto e faccio il tifo per lei.
Credo che la domanda
più grande che mi faccio -
e che come comunità ci possiamo fare -
è: "Riusciamo ad amare quella persona
fino a quando lei riuscirà
di nuovo ad amare se stessa?"
Io credo che ci riusciremo.
Grazie.
(Applausi) (Ovazione)