Caro rispettato Maestro, cara amata comunità,
oggi è il 12 giugno 2024
e ci stiamo avvicinando alla fine del ritiro di giugno di quest'anno;
siamo al New Hamlet a Plum Village
Mi sento molto grato del suono della campana
perché, quando suona la campana,
non devo dire niente.
È difficile dire qualche cosa proprio adesso,
è difficile dire qualunque cosa, e non
è necessariamente utile dire qualcosa.
Sono anche molto grato per la presenza del sangha,
di molti praticanti, di molti momenti
di pratica conservati dal passato,
di cui oggi facciamo tesoro: è il nostro magazzino
collettivo di presenza mentale,
concentrazione e visione profonda, su cui tutti noi ci basiamo,
è la nostra eredità condivisa che ci offriamo gli uni con gli altri.
È una cosa preziosissima e bellissima,
una risorsa preziosa.
È bello poter semplicemente
sedersi insieme e respirare insieme;
è interessante domandarci se riusciamo a
sentire la presenza del sangha nel nostro respiro,
nel nostro stare seduti,
perché è una cosa che Thay
ci chiedeva spesso di fare.
Ci diceva: “Inspirando, sono consapevole del sangha
tutto intorno a me,
espirando, mi sento molto felice”.
Io non mi sentivo veramente felice,
all'inizio lo trovavo molto difficile perché
ero confuso su quello che avrei dovuto provare.
Cosa significa “sentire la presenza del sangha”?
È qualcosa di mistico?
È un sesto senso come il super potere di Spiderman?
“Sento la presenza del sangha”.
Forse lo è…
adesso penso di poter sentire
la presenza del sangha
e mi sento molto felice di sentirla.
Oggi vorrei parlare un po’ dell'azione;
abbiamo già parlato molto dell'azione
e voglio continuare a farlo;
voglio parlare di attivismo, di buddhismo impegnato,
e voglio parlare di fede,
che è una parola complicata.
La fede è il primo dei cinque poteri;
se vi piace il buddhismo,
sapete che ci sono anche degli elenchi,
possiamo metterci sempre
in tasca uno di questi elenchi;
è come una piccola mappa
che possiamo usare per navigare,
può essere utile ma può essere
anche un ostacolo, quindi state attenti.
Dunque, la fede è il primo dei cinque poteri,
e certe volte Thay si riferiva a questi
cinque poteri come a una centrale elettrica,
anzi cinque centrali elettriche;
i cinque poteri sono la centrale elettrica che produce l'energia,
e sono anche l'energia che viene prodotta.
C’è la fede,
poi il secondo è l'energia, il vigore, la vitalità,
e gli ultimi tre sono facili,
sono i tre che si trovano in quasi tutti gli elenchi:
la presenza mentale, la concentrazione
e la visione profonda.
Cominciamo con la fede; qualche
volta si comincia con la consapevolezza,
ma oggi voglio riavvolgere un po’ il nastro
e vedere che cosa intendiamo con la parola “fede”
e voglio trattare questo argomento
perché è qualcosa con cui ho lottato;
è una parola che inizialmente mi scoraggiava,
perché pensavo che il buddhismo fosse razionale,
analitico, e che non avessimo bisogno della fede,
che non ci fosse chiesto di avere fede.
In realtà Thay parla di fede non come di un “atto” di fede,
quindi non una fede cieca,
ma una fede che si basa sull'esperienza,
sulla pratica.
Fede in che cosa?
In che cosa abbiamo fede, basandoci sulla pratica
o come risultato della pratica?
Ci sono degli ostacoli a questa fede, nel nostro
modo di pensare, nella nostra visione del mondo?
Potrebbero esserci alcuni ostacoli
nascosti al risveglio di questa fede,
per il tempo in cui viviamo, per il modo in cui siamo
stati educati o per le idee correnti,
i modi dominanti di pensiero,
perciò questi potrebbero essere ostacoli.
Per questo voglio indagare
un po’ insieme su questo tema.
Vorrei anche parlare di sofferenza,
uno dei nostri argomenti preferiti,
e vorrei riconoscere che tutto ciò è difficile,
adesso, in questo momento;
è difficile, non so se lo sentite,
io lo sento.
Proprio perché è così difficile, perché
c'è così tanta sofferenza nel mondo,
può essere difficile anche avere fede
in quello che facciamo,
e in ultima analisi la questione
della fede si riduce a questo: è abbastanza?
Stiamo facendo abbastanza?
In un modo o nell'altro, in questo ritiro ho
sentito molte persone porre questa domanda:
“È abbastanza?”
E, visto che ci poniamo la domanda: “Questo è abbastanza?”
dobbiamo anche chiederci cosa si intende per “questo”,
cos'è questa cosa che può
essere o non essere abbastanza.
In linea di principio sappiamo
di cosa stiamo parlando: la pratica,
ma questo è un argomento contenitore molto ampio
che racchiude molti tipi di comprensione e di interpretazione.
Qualche volta recitiamo i tre rifugi,
che potrebbero sembrare articoli di fede,
come se dicessimo: è in questo che abbiamo fede.
Abbiamo fede nel Buddha,
abbiamo fede nel Dharma,
abbiamo fede nel Sangha,
oppure no?
Le tre gemme: il Buddha, il Dharma, il Sangha.
Nella mia famiglia di ordinazione c'era un fratello,
un ottimo amico che poi è tornato allo stato laicale e pratica ancora in modo diligente,
che era solito dire:
“Capisco che il Buddha sia una gemma, anche il Dharma,
ma il Sangha…”,
lo chiamava il “carbone” del sangha,
che non era ancora diventato una gemma.
Forse se si prendesse un pezzo di carbone
e lo si mettesse sotto pressione per qualche milione di anni
potrebbe diventare un diamante,
magari abbiamo bisogno di più pressione,
anche se penso che ne abbiamo a sufficienza,
e penso che il sangha sia una gemma,
ma è interessante domandarselo:
lo vediamo sempre come tale?
Qualche volta lo vediamo come un ostacolo
e pensiamo: il problema è il sangha.
Il sangha non è abbastanza questo,
non è abbastanza quest'altro,
dovrebbe fare questo,
dovrebbe fare quest'altro.
Qualche volta ce ne sentiamo parte,
qualche volta sentiamo che ne siamo al di fuori, e lo guardiamo dall'esterno,
qualche volta sentiamo di appartenervi,
qualche volta sentiamo di non appartenervi.
Il sangha è una bestia complicata
con molte facce, con molte manifestazioni:
parliamo del sangha monastico?
Il sangha dell'ordine dell'interesse,
il sangha degli insegnanti di Dharma,
il sangha locale?
Il sangha nazionale?
Ha molte identità,
molti tipi di identificazione, che vanno a costituire
il nostro senso di appartenenza o di non appartenenza,
e la nostra sensazione di essere
all'interno del sangha o di restarne fuori puntando il dito.
Ora scrivo qualcosa alla lavagna
tanto per divertimento…
fede
abbiamo i tre rifugi:
il Buddha
il Dharma
il Sangha
I cinque poteri:
fede
energia
presenza mentale
concentrazione,
e - si spera- visione profonda.
Con un po’ di fortuna...
Da questa parte scrivo il tema dell'azione,
che cosa si intende per “azione”?
Thay Phap Huu ha condiviso molto bene
sul tema del triplice karma: le azioni del corpo,
della parola,
e del pensiero.
Queste sono
tre zone di azione, tre tipi di azione,
e quando pensiamo alle nostre azioni
in relazione alla sofferenza
possiamo domandarci:
qual è la risposta appropriata?
Shantum, nel dibattito con Sister True Dedication e
Christiana ci ha ricordato che al tempo del Buddha
c'erano molti insegnanti che
parlavano di determinismo,
dicendo che non c'è libero arbitrio,
che ogni cosa è predeterminata;
quindi, in realtà, non c'è azione,
ma il Buddha offriva un tipo diverso di comprensione,
un tipo diverso di visione profonda,
ed è interessante vedere che oggi, nei tempi moderni,
molti neuroscienziati e filosofi
stanno dicendo la stessa cosa.
Molte persone parlano di determinismo assoluto,
dicono che il libero arbitrio è un'illusione,
e secondo alcuni persino
la coscienza è un'illusione.
È interessante,
la cosa più onnipresente che ci sia,
la sostanza della nostra esperienza,
ogni singolo momento della nostra consapevolezza,
secondo alcuni è un’illusione.
Per me è interessante che questo tema sia rilevante ancora adesso
per sostenere la possibilità dell'azione;
forse è importante, per indagare
che cosa intendiamo per azione,
soprattutto alla luce del non sé,
che è un terreno un po’ scivoloso.
Quando parliamo di azione,
se togliamo il concetto di attore,
la nozione di attore,
può esserci azione senza un attore?
Un pensiero senza un pensatore?
Una sensazione senza qualcuno che sente?
Dobbiamo essere molto attenti e precisi
per essere sicuri di sapere
di cosa stiamo parlando.
Anche per questo è difficile
aprire la bocca a caso.
E appena lo facciamo commettiamo un errore,
ma lo facciamo comunque.
Lo facciamo comunque, nello spirito di
“magari è sbagliato” ma forse, si spera, utile.
C'è uno scienziato che ha detto che tutti i modelli
sono sbagliati, ma alcuni sono utili.
Penso che la stessa cosa sia
vera per il Dharma scritto
e anche parlato,
in un certo senso è tutto sbagliato.
Che cosa? Sacrilegio!
Come puoi dire una cosa simile?
C'è una specie di gerarchia nella
nostra comprensione del Dharma
che è utile tenere a mente
quando parliamo del Dharma scritto,
del Dharma parlato,
e del Dharma vivente
questo è quello buono, ma lo sono tutti.
Forse nel Dharma vivente c'è meno rischio di confusione.
Qui sto solo tracciando le linee generali, ma c'è di più.
Parleremo di azione, di attivismo
e di buddhismo impegnato.
E poiché vogliamo che la nostra azione,
come ha detto Shantum nel dibattito, sia una risposta appropriata,
se possiamo agire, se c’è la possibilità dell’azione,
e data la nostra consapevolezza
della sofferenza,
come praticanti la nostra priorità è sapere
qual è la risposta appropriata alla sofferenza.
Quindi la nostra consapevolezza
della possibilità di azione
o la nostra scelta dell’azione dipende
dalla nostra consapevolezza della sofferenza.
Giusto?
Se non sei consapevole di questo,
non puoi dare una risposta appropriata.
Bisogna essere molto fortunati per riuscire a rispondere a caso,
ma dobbiamo essere il più consapevoli possibile
e si spera che, quanto più consapevoli siamo della sofferenza,
tanto più saremo in grado
di trovare la risposta appropriata,
quindi pratichiamo la
consapevolezza della sofferenza.
Infatti, l'azione implica
la possibilità di una risposta,
e noi vorremmo dare la
risposta appropriata
alla sofferenza.
Di quale tipo di sofferenza stiamo parlando?
Per il momento
ho identificato due tipi di sofferenza, anche se non sono veramente due,
ma allo scopo di fare delle mappe
- che sono probabilmente sbagliate ma forse utili -
faremo questa distinzione:
Sofferenza nel mondo:
questa è la sofferenza che dilaga
nei collegamenti con i social media,
nelle nostre caselle di posta
e in quello che vediamo nei telegiornali;
ce n’è tantissima
e possiamo essere più o meno consapevoli dell'ingiustizia,
di molti tipi diversi di ingiustizia,
delle disuguaglianze,
di molti tipi diversi di disuguaglianze;
forse sia l'ingiustizia che le disuguaglianze
hanno delle sottocategorie,
per esempio la disuguaglianza di accesso alle risorse,
all'istruzione,
le disuguaglianze nel potere politico e altro.
La disuguaglianza nella rappresentanza,
le disuguaglianze nella sicurezza,
fisica, politica e così via,
la disuguaglianza di sovranità.
Questa lista non ha lo scopo di essere esaustiva
e se salto qualcosa non bisogna dire:
“Ha saltato qualcosa, ne ha saltata una”,
ci sono i puntini … la lista è lunga.
Poi c'è la sofferenza in noi stessi
e naturalmente una è collegata all’altra;
forse ne possiamo scrivere alcune qui anche se non c'è più spazio:
la solitudine,
lo stress
nelle sensazioni, nel corpo, nelle relazioni,
tensioni, paura,
odio, rabbia,
ansia, angoscia,
destino tragico,
disperazione,
impotenza,
collera,
burnout
e suicidio o pensieri di suicidio.
Queste sofferenze sono parte della
realtà del nostro momento presente,
perché una volta o l'altra tutti noi
proviamo aspetti diversi di queste cose e qualche volta,
quando vediamo la violenta
disuguaglianza nel mondo, l'ingiustizia,
gli squilibri di potere,
l'odio, le uccisioni,
la discriminazione di ogni genere,
questo ci può far provare tutte queste cose
che abbiamo elencato,
perché le due sofferenze sono
collegate e quindi sorge la domanda:
qual è la risposta appropriata,
cosa possiamo fare?
Posto che ne abbiamo la possibilità.
bella scelta.
È tanto più bello ascoltare il suono
della campana che dire delle cose.
Grazie campana!
Quindi, sulla questione dell'azione,
qualche volta possiamo avere
la tendenza a confonderci un po’,
quando pensiamo quale
sia la risposta appropriata.
Potremmo avere la tendenza a pensare
che cosa dovremmo fare noi,
ma spesso pensiamo a
che cosa dovrebbero fare gli altri,
e questo comprende
il campo di azione del sangha.
E se il sangha non fa le cose che
noi pensiamo siano quelle giuste da fare,
questo ci può portare a sentire
che non apparteniamo più al sangha
e ci può portare a dire e a fare cose
che ci fanno sentire ancora
meno il senso di appartenenza.
Quanto più diciamo e facciamo determinate
cose, tanto meno sentiamo di appartenere,
e qualche volta possiamo avere la sensazione
che quello non sia più il nostro sangha,
che non stia più praticando
il buddhismo impegnato;
così pensiamo: “Creerò un nuovo gruppo
e noi porteremo la torcia del buddhismo impegnato,
Plum Village non pratica più il buddhismo impegnato”.
Alcune persone l'hanno detto di recente
in modi più o meno espliciti.
E di nuovo quando diciamo “Plum Village” intendiamo i monaci?
Quali monaci?
Tutti? Alcuni?
Quelli con cui siamo d'accordo?
Quelli con cui non siamo d'accordo?
Includiamo noi stessi in Plum Village?
O ci mettiamo fuori e,
puntando il dito, diciamo: quello è Plum Village,
loro dovrebbero fare questo,
loro dovrebbero fare quest'altro.
Per me, quando facciamo così,
quando puntiamo il dito,
e lo facciamo - io lo faccio -
a qualche livello stiamo dividendo il sangha,
e questo è un tipo di azione molto grave,
un tipo di parola, di pensiero.
Nei precetti monastici dividere il sangha
è il secondo livello di gravità.
Ci sono i precetti principali, fondamentali,
infrangendo i quali non si è più monaci
– chiuso. Sei fuori.
Poi c'è un altro livello in cui ti
vengono date tre occasioni: di solito,
se fai una determinata cosa, ti viene
ricordato tre volte, se poi continui a farla,
allora hai infranto il precetto e devi impegnarti
in un processo abbastanza serio di reintegrazione
Questa è la questione,
può voler dire vivere mesi lontano dal sangha,
non avere il permesso di insegnare o di facilitare;
è una cosa molto seria,
è presa molto sul serio.
Questo processo di reintegrazione
è molto importante, lungo e complesso,
e si deve veramente diventare più umili
e ammettere quello che si è fatto,
ma è anche un precetto
abbastanza difficile da applicare.
Non ricordo nessuna occasione
in cui abbiamo effettivamente fatto così,
e detto: “Questa persona è
colpevole di aver diviso il sangha”.
Quindi è soprattutto qualcosa che riguarda
noi, è così che funziona il precetto,
perlopiù non c’è qualcuno che punta il dito
verso di te e dice: “Hai fatto questo, hai fatto quest'altro”,
dipende da ognuno di noi
riconoscere e ammettere
quello che abbiamo fatto e
ammettere le nostre responsabilità.
È così che funziona il sistema nella comunità monastica,
ma penso che da questo
possiamo imparare qualcosa,
principalmente a considerare
che cosa significa dividere il sangha
e che cosa significa non dividere il sangha,
perché non è solo quello che diciamo,
ma è anche il modo in cui lo diciamo.
Questo non significa che non si possano dire le cose,
ma penso che sia importante
per tutti noi membri del sangha
avere questa consapevolezza di fondo,
e domandarci:
“Sto contribuendo alla divisione del sangha
o sono ancora impegnato in quella che
è la mia carriera più nobile, più alta,
che è la costruzione del sangha?”.
Costruire il sangha è una delle cose
più belle che possiamo fare
coi nostri preziosi secondi, minuti,
ore e giorni su questo pianeta;
quindi vale la pena controllare
e non è sempre ovvio -
il che lo rende interessante.
Penso che per me essere molto sicuri
sia un segnale di allarme;
quando sono molto sicuro questa dovrebbe
essere la mia bandiera rossa;
quando ho una sorta di sicurezza, questo dovrebbe farmi da segnale di pericolo,
dovrebbe essere come il suono
che fa il campanello d'allarme.
“Sei davvero sicuro?”, controlla di nuovo!
Questo sangha è così prezioso,
non è carbone, è una gemma,
e non vogliamo distruggerlo;
così il nostro rispetto per il sangha è quello che ci
fa rendere conto dell'importanza di non distruggerlo,
nel nostro pensiero, nelle parole e nelle azioni,
e se non abbiamo abbastanza rispetto per il sangha
possiamo facilmente dire e fare delle cose
che dividono il sangha, lo distruggono, causano divisioni
e contribuiscono a formare fazioni e gruppi separati.
Magari pensiamo di agire nel nome della giustizia,
potremmo esserne molto sicuri
spero che sia chiaro che io non sono qui per dire
quello che è giusto e sbagliato dire o fare,
ma che spero di offrire dei parametri,
delle linee guida in modo da poter
controllare, quando vogliamo dire o fare qualcosa,
se ho nutrito il mio rispetto e la mia fiducia nel sangha
e se vedo ancora il sangha come un gioiello.
Se non è così, come faccio a
ristabilire prima di tutto quella fiducia,
come nutro, come costruisco quella fiducia?
Potrebbe essere attraverso la gratitudine
e ricordando quando il sangha mi ha salvato,
quando la pratica mi ha salvato,
perché penso che in un modo o
nell'altro tutti noi siamo stati salvati,
siamo stati salvati dall'oceano
della sofferenza
più volte, e, quando ci ricordiamo di questo,
ci ricordiamo che il sangha è un gioiello,
qualcosa da preservare, da proteggere
e di cui prenderci cura
Questo potrebbe farci
riflettere un po’ di più
sul modo in cui vogliamo parlare e agire,
e non significa che non dovremmo
dire quello che abbiamo da dire,
ma lo facciamo con la consapevolezza
del rischio di distruggere il sangha.
È un fatto grave, non è una cosa piccola,
causare una divisione in un sangha,
è una cosa che dobbiamo valutare e soppesare
quando decidiamo qual è la nostra risposta appropriata
in una situazione qualsiasi.
Adesso, pensando al buddhismo impegnato,
è successo che - molti di voi magari
ne sono consapevoli e ne sono al corrente
- più o meno nelle ultime settimane e mesi a Plum Village,
o a Plum Village a livello internazionale,
la comunità monastica internazionale
è stata più o meno indirettamente accusata
di non praticare più il buddhismo impegnato.
Non so se lo sapevate.
Queste critiche sono arrivate qualche volta
anche dall'interno della comunità monastica,
giusto per completare il quadro;
e di solito queste critiche nascono con il
presupposto che la persona che sta criticando,
per poterlo fare, sappia che cos'è il buddhismo impegnato,
altrimenti non sarebbe in grado di dirlo, non sarebbe
in grado di dire che non lo stiamo più facendo.
Perciò questo è il presupposto: *********
“Io so cos'è e voi non lo state più facendo”.
Siamo sicuri?
Siamo sicuri di sapere di cosa si tratta?
Molto spesso quando ci colpiscono si usa la frase:
“Thay avrebbe fatto questo,
Thay avrebbe detto questo…”.
Sei sicuro?
È complicato catturare,
cogliere un maestro Zen!
Molti ci hanno provato
e l'unica cosa che posso dire
della mia esperienza con Thay
è che lui non ha mai fatto quello
che io pensavo che avrebbe fatto;
per questo, se vi scoprite a dire:
“Thay avrebbe fatto questo,
Thay avrebbe detto questo”,
non siate troppo certi,
è più probabile che avrebbe
fatto qualche cosa di sorprendente,
qualche cosa che non ci si aspettava
e che nemmeno si pensava possibile.
Quindi, quando ci giudichiamo gli uni gli altri
perché lo facciamo,
ci giudichiamo, giudichiamo l'impegno l'uno dell’altro
nel sangha laico, nel sangha monastico,
tra il sangha laico e quello monastico,
tra l'Ordine dell'Interesse e quelli che
non ne fanno parte, tra gli insegnanti di Dharma
quando ci giudichiamo gli uni con gli altri,
e dico questo con sicurezza perché lo facciamo,
dovremmo essere molto attenti,
perché in quel giudizio è nascosta
la presunzione di sapere
che cos'è il buddhismo impegnato
e che cosa dovrebbe essere.
Abbiamo già deciso qual è la risposta più appropriata,
quello che Thay avrebbe fatto,
quello che avrebbe detto,
quello che il sangha dovrebbe fare…
Quindi di nuovo vorrei davvero
partire della mia pratica
e costruire il mio sistema di preavviso:
se scopro che sto pensando in questo modo,
se mi scopro a pensare in questo modo
o a parlare in questo modo,
scatta l'allarme che dice:
“Sei troppo sicuro”
e la sicurezza per me è
un segno di confusione,
è un segno che ho ristretto le scelte
fino al punto di pensare
che ce n'è una sola,
che c’è solo una cosa giusta da fare.
È importante sapere che, dal punto di vista delle neuroscienze,
questa sicurezza è una dipendenza.
Amiamo il senso di sicurezza
e amiamo avere ragione
ed essere nel giusto, retti.
Potremmo pensare che la nostra sicurezza
sia il frutto di una valutazione razionale,
in cui abbiamo valutato le opzioni e per poi concludere
che questa è la risposta corretta, l'analisi corretta,
ma potrebbe essere importante sapere
- potete prendere nota di questo per dopo -
che la sicurezza non è questo.
In uno sviluppo recente delle
neuroscienze abbiamo scoperto
che la sicurezza non deriva
da un processo di valutazione razionale,
è una sensazione.
Ecco perché le persone possono essere sicure
di cose che molto chiaramente non sono corrette,
e penso che noi sappiamo che questo è
un elemento della situazione corrente del mondo.
Si può essere molto sicuri,
le persone possono essere molto sicure,
di cose molto strane e questo resiste all'evidenza.
Si può essere molto sicuri,
le persone possono essere molto sicure,
di cose molto strane e questo resiste all'evidenza.
Più siamo sicuri e più sentiamo di non aver bisogno di prove
e si può mostrare alle persone una
prova e loro ti possono rispondere:
“Sì ma io lo so, non puoi dimostrare
che sto sbagliando, lo so che è vero”.
È una sensazione che ci piace, è una sensazione piacevole,
e forse si può chiarire il punto rendendosi conto che l'insicurezza non è una sensazione piacevole:
è instabile, complicata e impegnativa, sfidante,
e l'insicurezza è anche una sensazione che si esprime
nel nostro sistema nervoso e nel nostro corpo.
Se ti prendi un momento per sentire
qual è la sensazione che ci dà l'essere incerti,
potresti notare che non è una sensazione
particolarmente piacevole
e visto che siamo quello che siamo,
noi tendiamo a evitare le sensazioni spiacevoli
e a cercare le sensazioni piacevoli,
quindi potremmo inconsciamente evitare l'insicurezza, compresa l'insicurezza morale,
l'ambiguità morale,
l'incertezza dell'azione,
il non sapere che cosa dovremmo
fare o non fare, dire o non dire;
quindi cadiamo nella sicurezza perché
è meno impegnativa e meno spiacevole.
Perciò una parte della mia pratica è anche addestrarmi
ad accettare le sensazioni spiacevoli
nel corpo, nelle mie sensazioni, nella mente e dire:
“Ah, va bene, non è poi così terribile”.
Questo è un addestramento,
possiamo addestrarci ogni giorno
a essere a nostro agio col disagio,
e questo potrebbe aiutarci quando
dobbiamo affrontare situazioni complicate,
in cui potremmo non avere tutte le informazioni:
non sappiamo qual è la cosa giusta
da fare, qual è la cosa giusta da dire.
Possiamo permetterci di
stare con questa pazienza,
e non cercare di risolvere quello
stato di disagio troppo in fretta;
forse va bene stare con quel disagio,
potrebbe essere molto doloroso,
potrebbe essere molto scomodo,
ma stai attento a non cercare
di risolverlo troppo in fretta,
perché questo potrebbe portarci
nella confusione della certezza,
dove incominciamo a non prestare più
attenzione ad altri tipi di informazioni
e quindi restringiamo
il campo d'azione,
e poi lo imponiamo agli
altri e gli diciamo:
“Se non fai questo non stai più
praticando il buddhismo impegnato”.
Davvero?
Sei sicuro?
Quindi uno dei modi in cui noi
restringiamo il campo d'azione
è passando un sacco di tempo online,
a guardare il nostro piccolo
schermo luccicante,
perché può sembrare avvincente,
può sembrare che il campo d'azione
sia dire delle cose online,
e la questione si riduce
al fatto che stai dicendo qualcosa,
e non a vedere se stai dicendo
cose giuste o sbagliate.
Per vostra informazione, non sto dicendo
che non dovremmo dire niente online,
ma sto dicendo che non
è l'unico tipo di azione,
quindi faccio un invito a tutti noi ,
e anche a me stesso:
sai trovare un tipo di azione impegnata
che non biasimi nessuno,
che non dia la colpa a nessuno,
è possibile?
È possibile trovare un tipo di azione
impegnata che non punti il dito?
È una domanda, perché nella mia
esperienza puntare il dito alle persone
non è di grande aiuto,
non so se l'avete notato.
E lo facciamo, lo facciamo molto!
Io sono un monaco,
non penso che il mio campo di azione sia dire qualche cosa online,
e so che alcune persone vorrebbero che io dicessi qualcosa online,
e sono sicuro che ci sono persone
che diranno delle cose online,
e io li sostengo nel
dire queste cose online,
ma personalmente non penso che
sia l'uso migliore del mio tempo.
Se riduciamo la questione del buddhismo
impegnato a dire delle cose online,
allora potremmo avere la tendenza a dire che
io non sto praticando il buddhismo impegnato,
perché non ho detto cose online.
Quello che vorrei dire è:
non facciamo questo gli uni agli altri,
non pensiamo così poco gli uni degli altri,
non restringiamo l'ambito del possibile
in termini dei campi di azione.
La natura del nostro impegno teniamola vasta,
e dire delle cose online è una forma legittima
di azione, non sto dicendo che non lo sia,
e magari ci sono cose migliori o peggiori da dire.
Non è un campo d’azione facile,
è molto difficile dire qualunque cosa online,
senza infastidire e turbare qualcuno,
e forse alcuni di voi pensano che
sia necessario infastidire qualcuno,
e anche questo potrebbe essere vero.
Per chiarezza, non sto dicendo che la comunità monastica
di Plum Village non dovrebbe dire niente online,
sto dicendo che non è questo
tutto quello che facciamo,
non è questo che determina il nostro essere o
meno una comunità buddhista impegnata.|
Se pensate che lo sia,
allora non ci avete capito.
Quando ci colpiscono citando Thay,
“Thay avrebbe fatto questo, Thay avrebbe detto questo,
Thay ha fatto questo, Thay ha detto questo”,
queste parole sono spesso accompagnate
da un particolare tipo di comprensione storica
della vita di Thay e del
buddhismo impegnato di Thay.
Di solito dicono così: Thay è stato impegnato negli anni ‘60
nel movimento per la pace,
quando ha partecipato alle marce per la
pace a New York e in altri luoghi,
e ha partecipato a conferenze stampa con
il dottor Martin Luther King jr,
e così via, sapete com’è.
Poi negli anni ‘70 è stato impegnato nel salvataggio dei “boat people”,
in seguito ha fatto altre cose, ha scritto dei libri
e infine ha fondato Plum Village,
e si è concentrato molto sulla costruzione
di una comunità monastica.
Immagino che abbia rinunciato
al buddhismo impegnato.
Molti lo pensano, molti sono ancora
turbati da questo,
non tutti nel movimento per
la pace l’hanno apprezzato.
È stato odiato da alcuni
per non aver detto le cose
che volevano che dicesse,
per non aver fatto le cose
che volevano che facesse.
In generale, alcune persone hanno visto il
buddhismo impegnato di Thay in calo,
come se fosse forte all'inizio ma poi lui avesse
cominciato a fare [semplicemente] dei ritiri,
e vorrei esaminare un po’ questo tema,
perché penso che facciamo una vera
ingiustizia a Thay se lo vediamo così.
Penso, anzi sono piuttosto sicuro …
- sicuro? diciamo moderatamente sicuro -
che la visione profonda di Thay abbia continuato a crescere,
che non abbia mai smesso di crescere,
e posso dire di avere fiducia
in questo perché
per molti anni ho passato
del tempo vicino a lui,
e mi sembra che non abbia mai
smesso di crescere,
quindi penso che sarebbe più sicuro ipotizzare
- visto che non lo sappiamo -
sarebbe più sicuro ipotizzare che la pratica di
buddhismo impegnato di Thay non fosse in calo,
ma anzi in crescita,
che sia diventata più impegnata,
forse semplicemente non appariva
come ci aspettavamo che apparisse,
e quel crescendo per me è una cosa
che continua e non si è mai fermata.
C’è un'intervista a Thay di Joe Confino
- mi pare del 2011 - che è qui da qualche parte;
si è svolta nella capanna di Thay,
eravamo convinti di aver
perso la registrazione,
ma di recente è ricomparsa
ed è molto bella;
è stata pubblicata in uno degli episodi del
podcast “La via d'uscita è dentro di noi”,
vale davvero la pena di ascoltarla.
Ne farò una parafrasi molto poco accurata:
a un certo punto Joe aveva fatto a
Thay una serie di domande,
del tipo: “Come fai a risvegliare le persone?”.
Il contesto di questa intervista
riguardava la crisi climatica
e voi sapete che Joe è un giornalista,
stava parlando come giornalista
e gli chiese: “Cosa devo fare?
Qual è l'azione appropriata?”
Joe è impegnato a dire cose online,
come ero io una volta.
È una buona domanda:
come risvegliamo le persone,
come le avvisiamo del pericolo,
e la risposta di Thay fu questa:
“Lo sanno già, non è questo il punto, lo sanno”.
Se lo sanno perché non agiscono?
Perché certamente
se sai qualcosa, poi agisci.
Potrei dire la stessa cosa adesso che siamo
testimoni di quotidiane atrocità sui nostri schermi
e nei nostri salotti,
e una parte dello shock morale in cui siamo
inseriti come specie è questa confusione.
Tutti possono vedere
e tuttavia noi permettiamo a tutto questo di continuare!
Lo sappiamo, tutti lo sanno!
Perché c'è la convinzione che,
se noi sappiamo, allora agiremo.
La risposta di Thay per me è
molto importante perché lui disse:
“Non è che le persone non lo sappiano, lo sanno”
possiamo parlare di una qualunque delle molteplici
crisi che stiamo affrontando proprio adesso
e tutte sono intersecate
quindi il punto non è che non lo sappiano,
il punto è che già non agiscono per affrontare
e risolvere la sofferenza nelle proprie vite,
già adesso non sono in
grado di riconciliarsi,
non sono in grado di allentare
le tensioni, lo stress,
non sono capaci di guarire
le proprie ferite
e volete che possano fare qualcosa per
quest'altro enorme problema strutturale?
Sono già sopraffatti!
Per questo, quando pensiamo all'arco della vita di Thay,
del suo insegnamento
e del suo buddhismo impegnato,
dobbiamo domandarci:
“Che cosa stava combinando?”.
Thay è un uomo intelligente,
aveva un progetto,
e se siamo suoi studenti
dobbiamo capirlo;
la mia ipotesi è che io non l'abbia
ancora capito, non del tutto,
e, proprio nel momento in cui penso di
averlo capito, potrebbe essermi sfuggito.
Nel cercare di cogliere un
insegnante Zen dicendo:
“Ah, Thay sta facendo questo”
Thay già sfugge, non lo
si può cogliere in questo modo,
ma possiamo continuare a
porci le domande su che cosa voleva fare,
qual era il suo programma
e qual era il suo progetto per
trovare la risposta alla domanda:
“Qual è l'azione appropriata, qual è
la risposta appropriata alla sofferenza?”.
Di certo Thay era consapevole della sofferenza
nelle sue molte sfaccettature
ed era continuamente impegnato a rispondere
alla domanda: qual è la risposta appropriata?
Dovremmo riuscire a trovare degli
indizi in quello che faceva e diceva,
non faceva e non diceva;
quello che pensava è forse più misterioso,
ma almeno in quello che fece e disse,
non fece e non disse, ci sono degli indizi.
Vorrei fare l’ipotesi, magari mi sbaglio,
che ci fosse un ‘crescendo’ e non un ‘diminuendo’,
che la sua comprensione e la sua abilità nel
rispondere stesse continuamente crescendo,
magari mi sbaglio, ma
in questo caso non credo.
Quindi ipotizziamo che,
da bravo praticante buddhista,
Thay continuasse a porsi la domanda:
quali sono le radici della sofferenza?
Siamo consapevoli della sofferenza, la prima nobile verità
e poi cerchiamo le radici, come si
è creata questa sofferenza?
Perché per affrontarla dobbiamo capirla,
dobbiamo capire come si è creata nel mondo e in noi stessi;
quello è il sentiero,
e dovremmo tutti continuare a chiederci:
ho capito le radici della sofferenza
in me stesso e nel mondo,
ho davvero capito?
Questa è la base della nostra pratica,
se non lo facciamo,
certamente non possiamo dire che stiamo
praticando il buddhismo impegnato.
Quindi dobbiamo farlo,
dobbiamo continuare a farlo.
Ipotizziamo che Thay lo stesse facendo,
penso che lo stesse facendo,
per cui c’è tutto nella risposta alla domanda, quando ha detto:
“Non è che le persone non lo sappiano, lo sanno,
ma sono già sopraffatte
e incapaci di trasformare la propria
sofferenza personale nella
loro vita, di riconciliarsi e di guarire”.