Ho una domanda: chi in questa sala, ricorda la prima volta che si è reso conto che siamo destinati a morire? Io sì. Ero un ragazzino, e mio nonno era appena morto, ricordo che alcuni giorni dopo, disteso sul letto di notte cercavo di dare un senso a quello che era successo. Cosa significava che era morto? Dove era andato? Era come se un buco nella realtà si fosse aperto e l'avesse risucchiato. Quindi mi venne in mente una domanda veramente scioccante: se lui era morto, poteva succedere anche a me? Quel buco nella realtà poteva aprirsi e risucchiare anche me? Si sarebbe aperto sotto il mio letto per risucchiarmi mentre dormivo? Tutti i bambini prima o poi diventano consapevoli della morte. Ovviamente succede in modi differenti e solitamente succede per gradi. La nostra percezione della morte si sviluppa man mano che cresciamo. E se raggiungete i recessi bui della vostra memoria, ricorderete qualcosa di simile a quello che ho provato io quando è morto mio nonno e mi sono reso conto che poteva accadere anche a me, quella sensazione che dietro ad ogni cosa il vuoto sia in attesa. E questo sviluppo nell'infanzia riflette lo sviluppo della nostra specie. Così come c'è stato in voi un momento dello sviluppo come bambini, in cui la vostra idea di voi stessi e del tempo è diventata abbastanza sofisticata da farvi realizzare la vostra mortalità, così ad un certo punto nell'evoluzione della nostra specie, il senso del sé e del tempo di qualcuno dei primi uomini è diventato abbastanza evoluto da farli diventare i primi esseri umani a capire, "Morirò". Questa è, se volete, la nostra maledizione. È il prezzo che paghiamo per essere così maledettamente intelligenti. Dobbiamo vivere nella consapevolezza che la peggior cosa che ci possa accadere, un giorno sicuramente succederà, la fine di tutti i nostri progetti, delle nostre speranze, dei nostri sogni, del nostro mondo personale. Viviamo tutti all'ombra della nostra personale apocalisse. Ed è spaventoso. Terrificante. Così cerchiamo una via d'uscita. Nel mio caso, all'età di cinque anni, questo significava chiederlo alla mamma. Quando per la prima volta chiesi cosa accadesse quando si muore, all'epoca gli adulti intorno a me risposero con il tipico miscuglio anglosassone di disagio e incerto spirito cristiano, e la frase che ho sentito più spesso era che il nonno "era lassù e vegliava su di noi", e se io fossi morto, cosa che ovviamente non sarebbe successa, allora anch'io sarei andato lassù, cosa che ha reso la morte una sorta di ascensore esistenziale. Tutto questo non sembrava molto plausibile. All'epoca guardavo un programma di informazione per bambini, era l'epoca delle esplorazioni spaziali. Era tutto uno sfrecciare di razzi nel cielo, che andavano su fin nello spazio. Ma nessuno degli astronauti che tornava ha mai menzionato di aver incontrato mio nonno o una qualsiasi delle persone morte. Ma ero spaventato, e l'idea di prendere questo ascensore esistenziale e di vedere mio nonno mi sembrava migliore dell'essere risucchiato dal nulla mentre dormivo. Così, nonostante tutto, ci credetti, anche se non aveva molto senso. Questo processo mentale che ho percorso da bambino, e che ho percorso più volte da allora, anche da adulto, è il prodotto di quello che gli psicologi chiamano un condizionamento. Il condizionamento è ciò per cui sbagliamo sistematicamente, ciò per cui sbagliamo i calcoli, giudichiamo male, distorciamo la realtà o vediamo quello che vogliamo vedere. Il condizionamento di cui sto parlando funziona così: mettete qualcuno davanti al fatto che siamo destinati a morire e crederà a qualsiasi storia che gli spiegherà che non è vero anzi, che si può vivere per sempre, anche se questo significa prendere l'ascensore esistenziale. Possiamo vederlo come il più grande condizionamento di tutti. È stato dimostrato con oltre 400 studi empirici. Sono studi creativi, ma semplici. Funzionano così. Si prendono due gruppi di persone simili sotto tutti i punti di vista importanti, e si ricorda a uno solo dei due gruppi che siamo destinati a morire, quindi si confrontano i loro comportamenti. Così potrete osservare come la consapevolezza della mortalità condiziona il comportamento. Ogni volta si ottiene lo stesso risultato: le persone consce della propria mortalità sono più propense a credere alle storie che dicono che si può sfuggire alla morte e che si può vivere per sempre. Ecco un esempio: uno studio recente ha preso due gruppi di agnostici, persone che sono indecise in merito alle proprie credenze religiose. Ad un gruppo è stato chiesto di pensare di essere morti. All'altro gruppo è stato chiesto di pensare di essere soli. Quindi è stato loro chiesto nuovamente il loro orientamento religioso. Quelli ai quali era stato chiesto di pensare di essere morti avevano il doppio delle possibilità di esprimere fede in Dio e in Gesù. Il doppio delle probabilità. Anche se all'inizio erano tutti agnostici allo stesso modo. Instillata in loro la paura della morte sono corsi da Gesù. Questo mostra che ricordare alle persone la morte le condiziona a credere, malgrado le prove, e funziona, non solo per la religione, ma anche per ogni sistema di credenze che promette una qualche forma di immortalità, sia che si tratti di diventare famoso o di avere figli o anche il nazionalismo, che promette di continuare a vivere come parte del grande tutto. Questo è il condizionamento che ha formato il corso della storia dell'umanità. La teoria dietro questo condizionamento in oltre 400 studi è chiamata la teoria della gestione del terrore, e l'idea è semplice. È proprio questa. Sviluppiamo la nostra visione del mondo cioè, le storie che raccontiamo a noi stessi sul mondo e sul nostro posto in esso, per aiutarci a gestire il terrore della morte. Queste storie di immortalità hanno migliaia di differenti manifestazioni ma credo che dietro l'apparente diversità ci siano in realtà quattro forme base che queste storie di immortalità possono assumere. Possiamo vedere come si ripetono nella storia, con poche varianti che riflettono il lessico del tempo. Adesso introdurrò brevemente queste quattro forme base di storie dell'immortalità, e voglio tentare di darvi una qualche ragione del modo in cui sono tramandate in ogni cultura o generazione utilizzando il lessico dell'epoca. La prima storia è la più semplice. Vogliamo evitare la morte, e il sogno di farlo nel proprio corpo in questo mondo per sempre è il primo tipo di semplicissima storia sull'immortalità, è all'inizio può sembrare plausibile, ma in realtà, quasi tutte le culture nella storia dell'umanità hanno avuto un qualche mito o leggenda su un elisir della vita o fontana della giovinezza o su qualcosa che promette di mantenerci in vita per sempre. L'antico Egitto ha un mito di questo tipo, l'antica Babilonia, l'antica India. Attraverso la storia Europea, li ritroviamo nel lavoro degli alchimisti, e ovviamente, ci crediamo ancora oggi, solo che ora usiamo questa storia utilizzando il vocabolario della scienza. Così cent'anni fa, gli ormoni erano appena stati scoperti, e le persone speravano che il trattamento ormonale avrebbe curato l'invecchiamento e le malattie, ora invece riponiamo le nostre speranze nelle cellule staminali, l'ingegneria genetica, le nanotecnologie. Ma l'idea che la scienza possa curare la morte è solo un ulteriore capitolo nella storia dell'elisir magico, una storia vecchia quanto la civilizzazione. Ma scommettere tutto sull'idea di trovare un elisir e restare vivi per sempre è una strategia rischiosa. Quando rivolgiamo lo sguardo alla storia tutti quelli che hanno cercato l'elisir nel passato, hanno un'unica cosa in comune sono tutti morti. Quindi c'è bisogno di un piano di riserva, ed è esattamente questo tipo di piano B che offre il secondo tipo di immortalità, ed è la resurrezione. Tutto sta con l'idea che io sono questo corpo, questo organismo fisico. Accetto di dover morire ma dice che, nonostante tutto, risorgerò e potrò vivere ancora. In altre parole, posso fare quel che ha fatto Gesù. Gesù è morto, è rimasto tre giorni nella tomba, è risorto ed è tornato a vivere. L'idea che noi tutti possiamo risorgere e vivere ancora è una credenza ortodossa, non solo per i Cristiani ma anche per gli Ebrei e i Mussulmani. Ma il nostro desiderio di credere a questa storia è così profondamente radicato che lo stiamo reinventando per l'era della scienza ad esempio, con la teoria crionica. È la teoria secondo la quale al momento della morte, si può essere congelati, per essere scongelati nel momento in cui una tecnologia sufficientemente avanzata, consenta la riparazione, la rianimazione e la resurrezione. Alcune persone credono che un Dio onnipotente ci farà risorgere a nuova vita, mentre altre persone credono che lo farà uno scienziato onnipotente. Per altri l'intera idea della resurrezione, dell'arrampicarsi fuori dalla tomba, è fin troppo simile ad un brutto film di zombie. Questi ritengono il corpo troppo caotico, troppo inaffidabile per garantire una vita eterna, quindi ripongono le loro speranze nella terza opzione, una storia dell'immortalità più spirituale, l'idea che possiamo lasciarci indietro il nostro corpo e continuare a vivere come anima. La maggior parte delle persone sulla Terra crede di avere un'anima, e questa idea è centrale per molte religioni. Benché nella sua forma attuale, nella sua forma tradizionale, l'idea dell'anima sia ancora molto popolare, ciononostante la stiamo di nuovo reinventando per l'era digitale, ad esempio con l'idea che si può lasciare il corpo caricando la mente, l'essenza, il vero sé, su un computer, e così vivere come avatar nell'etere. Ma naturalmente ci sono gli scettici che dicono che se guardiamo le prove scientifiche, in particolare le neuroscienze, queste ci suggeriscono che la mente, la nostra essenza, il vero io, dipende molto da una determinata parte del nostro corpo, e cioè, il cervello. E così gli scettici possono trovare conforto nel quarto tipo di storia di immortalità, che è l'eredità, l'idea che si può continuare a vivere attraverso l'eco che si lascia nel mondo, come il grande guerriero greco Achille, che sacrificò la sua vita combattendo a Troia così da conquistare fama immortale. E la ricerca della fama è diffusa e popolare come mai lo è stata, e nella nostra epoca digitale, è anche più facile da realizzare. Non è necessario essere un grande guerriero come Achille o un grande re o un eroe. Tutto ciò che serve è una connessione Internet e un gatto divertente. (Risate) Ma alcune persone preferiscono lasciare una più tangibile, eredità biologica - i bambini, per esempio. A molti piace sperare di continuare a vivere come parte di un qualche bene maggiore, di una nazione, di una famiglia o di una tribù, della loro eredità genetica. Ma ancora una volta, ci sono gli scettici che dubitano che il lascito equivalga veramente all'immortalità. Woody Allen, per esempio, che ha detto, "Non voglio vivere nei cuori dei miei compatrioti. Voglio vivere nel mio appartamento." Così questi sono i quattro tipi fondamentali di storie di immortalità, e ho cercato soltanto di dare un quadro generale di come queste siano state tramandate di generazione in generazione con solo lievi variazioni per adattarle alla società del momento. E il fatto che essi si ripresentano in modo similare, ma in sistemi di convinzioni differenti, suggerisce, credo, che dovremmo essere scettici della verità di una particolare versione di queste storie. Il fatto che alcune persone credano che un Dio Onnipotente li resusciterà per vivere ancora e gli altri credono che lo farà uno scienziato onnipotente suggerisce che nessuna di queste storia sia credibile sulla forza dell'evidenza. Piuttosto, crediamo in queste storie perché siamo condizionati a crederci, e siamo condizionati a crederci perché siamo così spaventati dalla morte. Quindi la domanda è: siamo destinati a condurre una vita modellata da paura e negazione, o possiamo superare questo condizionamento? Beh, il filosofo greco Epicuro pensava che potessimo. Egli sosteneva che la paura della morte è naturale, ma non è razionale. "La morte", ha detto, "è nulla per noi, perché quando siamo qui, la morte non c'è e quando la morte è qui, non ci siamo noi." Questa citazione ricorre spesso, ma è difficile cogliere fino in fondo, interiorizzare davvero, perché questa idea di non esserci più è così difficile da immaginare. Così 2000 anni più tardi, un altro filosofo, Ludwig Wittgenstein, la mise in questi termini: "La morte non è un evento della vita: noi non viviamo per sperimentare la morte. E così," aggiunse, "in questo senso, la vita non ha fine." Così è stato naturale per me da bambino aver paura di essere inghiottito dal vuoto, ma non era razionale, perché essere inghiottiti dal vuoto è una cosa che nessuno di noi sperimenterà mai dal vivo. Non è facile superare questo condizionamento perché la paura della morte è così profondamente radicata in noi, eppure quando vediamo che la paura stessa non è razionale, e quando portiamo allo scoperto i modi in cui ci può inconsciamente condizionare, possiamo almeno iniziare a cercare di ridurre al minimo l'influenza che ha sulle nostre vite. Trovo che sia d'aiuto vedere la vita come un libro: proprio come un libro è delimitato dalle sue copertine, di inizio e fine, così le nostre vite sono delimitate da nascita e morte, e anche se un libro è limitato da inizio e fine, può comprendere paesaggi lontani, figure esotiche, fantastiche avventure. E anche se un libro è limitato da inizio e fine, i caratteri all'interno di esso non hanno orizzonti. Sanno solo dei momenti che compongono la loro storia, anche quando il libro è chiuso. E così i personaggi di un libro non hanno paura di raggiungere l'ultima pagina. Long John Silver non ha paura che finiate la vosrta copia de "L'Isola del Tesoro". E così dovrebbe essere per noi. Immaginate il libro della vostra vita, le sue copertine, il suo inizio e la sua fine, la vostra nascita e la vostra morte. Potete conoscere solo i momenti in mezzo, i momenti che compongono la vostra vita. Non ha senso per voi aver paura di ciò che è al di fuori di quelle copertine, che sia prima della vostra nascita o dopo la vostra morte. E non vi preoccupate di quanto il libro è lungo, che si tratti di un fumetto o un poema epico. L'unica cosa che conta è che lo rendiate una bella storia. Grazie. (Applausi)