Oggi parliamo di una delle figure culturali
più importanti di tutta la storia italiana.
È un autore ed è un caso storico e letterario
straordinario: secondo la leggenda, studiava
così tanto che è morto reclinando la testa
sulle proprie carte; è il primo essere umano
della storia su cui abbiamo ricevuto così tante
informazioni, e per di più da fonti di prima mano;
ed è anche l’autore di una delle opere
più influenti della letteratura italiana,
a un punto tale che nemmeno Shakespeare sarebbe
stato al 100% lo Shakespeare che tutti conosciamo,
se non ci fosse stato lo zampino dell’opera in
questione. Sto parlando di Francesco Petrarca,
che con Dante e Boccaccio fa parte delle
cosiddette Tre Corone, i tre maggiori autori
del tardo medioevo fiorentino, fondamentali nella
storia della lingua e della letteratura italiana.
Questo è il secondo video al riguardo, dopo
quello di qualche anno fa su Dante: naturalmente,
in futuro non potrà non arrivare il terzo, su
Giovanni Boccaccio.
Ma veniamo subito a Petrarca:
una fermata nel suo mondo è un passaggio quasi
obbligato, se si vuole iniziare a studiare e
comprendere la letteratura italiana, perché questo
autore ha influenzato per sempre non solo le sorti
della letteratura del Belpaese, ma anche le
sorti della lingua letteraria in generale,
e in particolare della lingua della
poesia. In un primo momento, dunque,
ci soffermeremo sulla vita dell’autore e sulla
sua fortuna, intesa come successo. Poi daremo
un’occhiata alla sua opera più conosciuta e
studiata, ovverosia il Canzoniere; e, per finire,
cercheremo di capire quale sia l’eredità
culturale, letteraria e linguistica che
Petrarca ci ha lasciato. Io sono Davide e questo
è Podcast Italiano, un canale per chi impara o ama
l’italiano. Se impari la lingua di Dante, Petrarca
e Boccaccio, trovi la trascrizione di tutto
quello che dico sul mio sito. Ti lascio il link in
descrizione. E se ti serve, attiva i sottotitoli.
Francesco Petrarca nasce nel 1304 ad Arezzo,
in Toscana; tra il 19 e il 20 luglio,
secondo la tradizione. È figlio di un
notaio bandito da Firenze, dove nei decenni
precedenti erano infuriate grandi battaglie
politiche. Si tratta delle stesse battaglie
che portarono all’esilio di Dante, che – tra
parentesi – il padre di Petrarca conosceva.
Ma torniamo subito dal nostro Francesco Petrarca.
Già da piccolo, diventa un viaggiatore: nel 1312,
infatti, il padre porta la famiglia a vivere
ad Avignone, nella Francia meridionale, dove
Petrarca viene istruito da un italiano a sua volta
esule. L’accesso a questi studi non era comune:
il giovanissimo Francesco nasce in una condizione
abbastanza agiata, e suo padre non gli nega
l’acquisto di diversi manoscritti utili per gli
studi. Considerate che ci troviamo nel XIV secolo,
prima dell’invenzione della stampa: spesso,
per aver accesso a un testo, i più ricchi
ne potevano commissionare la riproduzione a
un copista, che ricopiava tutto; altrimenti,
bisognava direttamente acquistare l’originale
o una copia già prodotta in precedenza,
o ancora – pensate – copiare il testo da sé, se
possibile – pensate che fatica –: in tutti i casi,
si trattava di un investimento, spesso
di denaro o, alternativamente, di tempo.
Qualche anno dopo, Petrarca inizia gli studi
di legge a Montpellier, sempre in Francia,
che tuttavia affronta di malavoglia. Sempre
nel periodo della prima giovinezza, visita
anche Rimini, Venezia e, soprattutto, Bologna,
destinazione molto importante per affinare
le proprie competenze letterarie. La città
infatti, al tempo, era un importantissimo centro
d’irradiazione della poesia in lingua volgare,
cioè, in questo caso specifico, in una delle tante
lingue d’Italia che si erano evolute a partire
dal latino. Tra parentesi oggi, in italiano,
volgare significa tipicamente grossolano, rozzo,
scurrile o, in altri termini, maleducato. Nel
gergo tecnico, però, questa parola indica,
soprattutto quando si parla del medioevo, perché
poi in futuro si inizia a parlare di dialetti,
indica, dicevo, le lingue parlate dal volgo,
cioè dal popolo, in contrapposizione alla lingua
letteraria più alta e nobile, che era il latino.
Nel 1326, c’è una svolta: il padre del nostro
giovane studioso muore, portando la famiglia a un
periodo di difficoltà economica. Proprio in questa
occasione Petrarca abbandona definitivamente
gli studi di legge e, forse, inizia a sua
volta a produrre opere in lingua volgare.
Presto si stabilisce ad Avignone, dove al tempo,
tra l’altro, si trovava la sede della curia
papale. Come alcuni di voi sapranno, infatti, per
gran parte del XIV secolo il papa non risiedette
a Roma, bensì proprio ad Avignone, in Francia.
A proposito di religione… Ad Avignone, Petrarca
decide di prendere gli ordini minori, che, in
breve, rappresentano un’affiliazione alla Chiesa
che comporta qualche compito, ma, soprattutto, che
garantisce tutti i benefici economici che al tempo
erano riservati agli uomini di chiesa. Furbo,
il nostro Francesco. Questa pratica in realtà
non era rara, proprio perché non richiedeva grandi
sforzi, ma dava notevoli vantaggi. In questo modo,
Petrarca si libera fondamentalmente
delle maggiori preoccupazioni economiche,
e ha la possibilità di fare quello che gli piace.
Gli anni della giovinezza sono caratterizzati,
almeno a detta di Petrarca, da un certo abbandono
alla vita mondana – anche se dobbiamo considerare
che parliamo dei criteri di un uomo severo,
che vuole dare una certa immagine di sé,
e ne parleremo dopo. In questo periodo,
forse, Petrarca si abbandona anche all’amore
per una donna, della quale, ancora una volta,
sappiamo poco: alcuni studiosi credono di aver
addirittura trovato la sua identità, mentre
altri ne dubitano fortemente. Ad ogni modo,
questa relazione verrà poi ripresa nell’opera più
importante di Petrarca, quindi teniamola a mente.
Intanto gli anni passano, e il nostro Francesco
si avvicina, grazie alla propria cultura e alle
proprie conoscenze, a personalità importanti, per
visitare le quali compie diversi altri viaggi.
Ci troviamo ormai intorno agli anni Trenta quando
vediamo dei grossi passi avanti anche negli studi:
Petrarca, infatti, era molto vicino ai testi
dell’antichità, e cercava costantemente di
comprendere e analizzare i testi latini. Produce
addirittura delle edizioni, per esempio di
un’opera del celebre autore latino Livio; e,
forse ancor più sorprendentemente, scopre i
manoscritti di alcuni testi importantissimi della
latinità, come quello del Pro Archia di Cicerone.
Al contempo, questi testi facevano da maestri
a Petrarca, che assorbe le sottigliezze della
lingua latina e le riproduce con maestria. Una
maestria davanti a cui i contemporanei non restano
indifferenti: nel 1341, Petrarca viene incoronato
poeta a Roma, in Campidoglio, da nientemeno che
il re Roberto d’Angiò, che al tempo era il sovrano
del Regno di Napoli. Questo rito voleva riprendere
esplicitamente la tradizione latina, nella quale,
secondo le informazioni disponibili all’epoca,
s’era usato rendere onore alla gloria poetica
in questo modo. E Petrarca viene incoronato
proprio per la sua produzione in latino, che
era considerata la più bella: per adesso,
i suoi versi in lingua volgare non sono ancora
pronti a risplendere, anche se, come si suol dire,
qualcosa bolle in pentola. Sulla testa
del nostro autore, intanto, viene dunque
posata una corona d’alloro, rendendolo, per così
dire, un VIP della sua epoca; e a ragion veduta,
perché non ci dimentichiamo che Petrarca è uno dei
più grandi autori in lingua latina del suo tempo.
Ma il nostro Petrarca non si adagia sugli
allori: i viaggi continuano, grazie ai
benefici ecclesiastici e, ancor più ormai, grazie
alla protezione dei potenti, che con piacere
sostengono un intellettuale di questo calibro.
Nel 1348, quando l’Italia e l’Europa sono in
ginocchio a causa di un’epidemia di peste,
Petrarca supera la crisi incolume, ma la donna
che ama – ricordate? – invece non sopravvive.
Anche questo evento sarà molto importante per ciò
che diremo più tardi, quindi teniamolo a mente.
Nel 1350, finalmente, il poeta visita Firenze:
l’esilio della famiglia era stato revocato,
nel frattempo, e in città ci sono amici e
ammiratori. Inoltre, il nostro poeta incontra
un altro scrittore importantissimo per la sua
epoca e per i secoli futuri, la terza corona di
cui parleremo, vale a dire Giovanni Boccaccio,
peraltro influenzandone la produzione artistica.
I viaggi, tra Italia e Francia, ancora non si
fermano, finché, nel 1352, Petrarca lascia
definitivamente la Francia per Milano. In
quell’anno, infatti, Innocenzo VI diventa
papa; e i rapporti con Petrarca non erano
esattamente dei migliori. Ricordate che
il papa, al tempo, si trovava in Francia;
così il nostro amico decide che è il caso di
fare la valigie e tornare nella madrepatria.
A partire dal soggiorno milanese, l’attività
letteraria cresce ulteriormente, anche se non
mancano i viaggi e gli impegni politici.
Ai potenti del tempo non dispiaceva avere
al proprio servizio un grande intellettuale, né
affidargli, per esempio, missioni diplomatiche.
Con il tempo, però, Petrarca decide di
volersi dedicare ai suoi studi in pace:
a partire dal 1369-70 si stabilisce, per quanto
possibile, ad Arquà, non lontano da Padova,
in Veneto, dove muore nel 1374.
Oggi, in suo onore, Arquà è un
villaggio conosciuto anche con il nome di
Arquà Petrarca, dove è tutt’oggi possibile
visitare la casa in cui visse il grande poeta.
Grande, sì – e ora vedremo perché – al punto che,
dopo la morte, ammiratori e studiosi iniziano
a cercare i suoi libri. E fino a oggi arriva
un’enorme quantità di materiale: opere, appunti,
lettere. Lettere poi accuratamente copiate e,
sempre sulla falsariga dei grandi modelli
latini, pensate per essere effettivamente lette
dai posteri. Petrarca sapeva che le sue lettere
sarebbero state lette, e proprio per questo non
possiamo fidarci ciecamente del loro contenuto:
l’autore voleva tracciare un’autobiografia
ideale, in modo da mostrare al mondo e
ai posteri di aver ripercorso quanto più
possibile i passi di un grande romano ideale.
Per tutto il XIV secolo e per parte del XV,
Petrarca viene ammirato come fine poeta
latino; finché qualcosa non cambia:
a partire dal secondo Quattrocento, l’attenzione
per il Petrarca latino diminuisce, mentre la fama
del poeta in lingua volgare aumenta. Ben
presto, il nostro poeta diventa il poeta,
il modello insuperabile di poesia, sia
nella Penisola italiana, sia al di fuori.
Ma grazie a quale opera, esattamente?
L’opera in questione è chiamata tipicamente
Canzoniere, parola in realtà generica che,
in italiano, indica una raccolta di poesie.
Inutile dire che quello di Petrarca è diventato
il canzoniere per antonomasia, ed ecco servito
il titolo dell’opera. In realtà però, il
vero titolo era Rerum vulgarium fragmenta,
cioè frammenti di cose volgari, cioè
testi vari scritti in lingua volgare.
In tutto, ci sono arrivati 72 fogli di pergamena,
che contengono tutte le 366 poesie che compongono
l’opera (una per ogni giorno dell’anno, se
escludiamo la poesia che fa da introduzione
all’opera). Su questi fogli di pergamena
scrissero sia lo stesso Petrarca, sia un copista
che lavorava sotto la sua diretta sorveglianza.
Questi fogli furono rilegati, cioè messi insieme,
dopo la scomparsa dell’autore, e ora si
trovano nella Biblioteca Apostolica Vaticana,
con il nome di codice Vaticano latino 3195: quasi
non c’è studioso di letteratura italiana che non
conosca questo numero. Il fatto che abbiamo
un’intera opera di Petrarca scritta dallo
stesso Petrarca è straordinario: basti pensare
che di Dante non abbiamo una sola parola scritta
di prima mano, né, in realtà, scritta sotto
la sua diretta sorveglianza (in questi casi,
in gergo tecnico, si parla di testo idiografo).
Ma c’è un fatto ancora più straordinario: ci
sono giunte addirittura le carte contenenti gli
abbozzi dell’opera, e altri abbozzi ancora (il
manoscritto, in questo caso, si chiama Vaticano
latino 3196). Queste carte ci dànno la possibilità
di studiare come il testo sia stato migliorato,
rimaneggiato e portato alla sua forma finale:
oggi questo esercizio potrebbe sembrare ovvio,
ma al tempo non lo era, e proprio le carte di
Petrarca ebbero il ruolo di propulsore, di motore
che diede una spinta a queste riflessioni.
A questo punto, ormai, è impossibile non
chiederselo: di che cosa parla l’opera?
Il Canzoniere racconta dell’amore di Petrarca
per Laura, una donna bellissima che rappresenta
non soltanto l’oggetto di un amore terreno,
ma anche la stessa gloria poetica. Questa
Interpretazione nasce dal fatto che Petrarca
accosta continuamente il nome di Laura con una
serie di parole che hanno lo stesso etimo, cioè
la stessa origine, e che rimandano all’alloro:
questa pianta, detta anche lauro, è la stessa
di cui era composta la corona con cui – vi
ricordate – Petrarca fu incoronato, ed è proprio
un simbolo che rappresenta la poesia. Tra l’altro,
è anche per questo che in Italia, quando si
finisce l’università, ci si laurea, da “lauro”, e
nella cerimonia si indossa una corona d’alloro.
Il nostro Petrarca, dunque, ama una donna e ama
la gloria poetica: vi starete chiedendo, forse,
quale sia il problema. Il fatto è che Petrarca
vorrebbe amare le cose eterne, e quindi dedicare
il suo spirito all’adorazione di Dio. Ciò genera
un conflitto interiore: o si amano le cose
terrene, o si amano le cose ultraterrene, e non
c’è una via di mezzo possibile. Eppure Petrarca
fatica a lasciar andare il suo amore per Laura:
lui stesso ci dice, pensando al sé del passato,
che ora è un uomo diverso, ma solo «in parte» (e
usa esattamente queste due parole, “in parte”).
Questa lotta interiore dura una vita intera,
e condanna Petrarca a un’eterna inquietudine:
non può godersi l’amore e la gloria poetica,
perché si sente in colpa; e, al contempo, non può
godersi l’amore per Dio, perché l’amore per Laura
non muore mai del tutto, per quanto l’opera ci
porti costantemente verso l’adorazione di Dio.
Vediamo, o meglio leggiamo con i nostri occhi: di
seguito ascolterete la poesia (o più precisamente
il sonetto) che, in quattordici versi,
fa da introduzione a tutta l’opera.
Voi ch’ascoltate in rime sparse il suono
di quei sospiri ond’io nudriva ’l core
in sul mio primo giovenile errore
quand’era in parte altr’uom da quel ch’i’ sono,
del vario stile in ch’io piango et ragiono
fra le vane speranze e ’l van dolore,
ove sia chi per prova intenda amore,
spero trovar pietà, nonché perdono.
Ma ben veggio or sì come al popol tutto
favola fui gran tempo, onde sovente
di me medesmo meco mi vergogno;
et del mio vaneggiar vergogna è ’l frutto,
e ’l pentersi, e ’l conoscer chiaramente
che quanto piace al mondo è breve sogno.
Petrarca, con questo testo, si rivolge a chi
sta leggendo il testo, e in particolare a chi,
come lui e molti di noi, ha sofferto per amore:
la sua speranza è quella di essere compreso e
perdonato per aver commesso l’errore di amare
Laura. Il suo errore giovanile lo ha portato a
essere preso in giro, a pentirsi, e soprattutto
a capire che le cose terrene sono soltanto un
breve sogno, nel senso che non sono eterne
come le cose divine. Eppure il cambiamento
di Petrarca non è completo: è avvenuto,
come abbiamo già visto, solo “in parte”.
Non c’è il tempo necessario per analizzare
il testo nel dettaglio o leggerne altri,
ma vi faccio notare, intanto, che fondamentalmente
l’italiano di Petrarca è anche il nostro italiano,
per buona parte, e questo perché proprio Petrarca
ha contribuito indirettamente a creare l’italiano
letterario, e perché proprio il volgare
fiorentino, che era poi la lingua di Petrarca,
nei secoli, come sapete, sarebbe stato eletto
come lingua di riferimento per gli italiani.
Pensiamo soltanto al primo verso: Voi ch’ascoltate
in rime sparse il suono. Foneticamente, tutte le
parole sono rimaste identiche. Sarebbe davvero
difficile dire lo stesso di un verso scritto
in inglese, in francese, in tedesco, in greco
o in cinese nel XIV secolo, è sorprendente.
Quanto al significato, rime sparse si potrebbe
piuttosto tradurre con poesie sciolte, cioè non
raccolte in un’opera ben ordinata e conclusa. In
generale, però, la poesia è abbastanza facile,
tutto sommato, da comprendere per un
italiano del 2024, a condizione ovviamente
che venga fornita qualche indicazione.
Il messaggio è che l’italiano di Petrarca,
per una serie di motivi, è molto simile
al nostro italiano, e ciò vale per una
buona fetta dell’italiano letterario. Questa
è un’ottima notizia per chi già sa e per chi
studia l’italiano, perché significa che chi
conosce la lingua contemporanea può anche,
con un po’ d’impegno e pazienza, accedere a
ottocento anni di letteratura. Non è male, vero?
Prima di chiudere il video, vorrei cercare di
spiegare più esplicitamente perché Petrarca
è un autore così importante e perché
gli ho dedicato un video così lungo.
Innanzitutto, ci ha lasciato una
grandissima eredità culturale e
letteraria, sia con le sue opere latine e
volgari, sia con le opere che ha scoperto,
sia con le opere che ha studiato e commentato.
Ma se questo è un merito anche di diversi altri
autori, con Petrarca invece c’è dell’altro. Con il
Canzoniere sono fondamentalmente state fissate in
modo definitivo le forme poetiche dell’italiano:
si va dalla canzone, che è la forma più nobile,
usata per gli argomenti più alti e politici,
alle sestine, le ballate e i madrigali,
fino al sonetto, cioè la forma usata per scrivere
la poesia che abbiamo letto poco fa, composta da
quattordici versi. Nel Canzoniere, il sonetto
è la forma quantitativamente più rappresentata,
e in generale, a partire da Petrarca,
sarà spesso usata per trattare argomenti
un po’ più leggeri rispetto a quelli della
canzone, e in particolare ovviamente l’amore.
Si tratta, tra parentesi, di una forma tutta
italiana, visto che nasce in Italia nel primo
Duecento, ben presto si diffonde in tutta la
penisola e, grazie a Petrarca, supera anche i
confini dell’Italia. Nel Cinquecento infatti,
Henry Howard, poeta inglese, traduce diversi
testi di Petrarca. Thomas Wyatt, a sua volta
poeta, tende invece a usare di meno la traduzione
e l’imitazione, e piuttosto scrive sonetti
propri, sempre sulla base della forma stabilita
da Petrarca. A partire da questi input, e poi
dai contributi di altri seguaci del Petrarca,
il sonetto si diffonde sempre di più. Il numero
di questi seguaci è elevato a un punto tale per
cui possiamo parlare di un vero e proprio fenomeno
artistico, detto petrarchismo: nel XVI secolo ne
troviamo i segni, oltre che in Inghilterra, anche
in Francia e in Spagna, e non solo. Shakespeare
probabilmente lesse solo in parte le opere di
Petrarca, anche perché non conosceva molto bene
l’italiano; tuttavia, non poteva non conoscere i
petrarchisti della sua epoca, e infatti i sonetti
shakespeariani non sono privi di questa influenza.
Se non avessimo avuto Petrarca, non avremmo
nemmeno avuto lo Shakespeare che conosciamo, né
avremmo avuto diverse altre opere come le abbiamo
conosciute, sia in Italia, sia all’estero.
Quanto alla lingua italiana, il petrarchismo
è arrivato nel momento giusto, perché
a inizio Cinquecento il dibattito sulla
lingua è piuttosto intenso: la Penisola
era divisa in tante entità politiche,
non esisteva una nazione, come sapete, e ciò
nonostante si cercava una lingua per l’Italia,
per scrivere e comunicare tra le varie ragioni.
È a questo punto che entra in scena Pietro Bembo,
intellettuale italiano di cui parleremo più
dettagliatamente in un futuro video. Bembo,
intellettuale e letterato italiano, capisce che
scegliere un volgare d’Italia come lingua di
riferimento significa anche far prevalere una
lingua su tutte le altre, e capisce anche che
questa imposizione può avvenire con successo solo
se si basa sul prestigio. Per questo, come modello
per la prosa (cioè la scrittura non poetica)
sceglie il celebre Decameron di Boccaccio,
l’autore che ho citato prima, che Petrarca
incontrò a Firenze nel 1350, ne parleremo;
e come modello di lingua poetica, invece, indica
il Canzoniere del nostro Petrarca. Forse Bembo
indica l’unica soluzione vincente, l’unica
possibile in quel preciso contesto culturale,
storico e geografico. Nel Quattrocento c’era
stata molta più eterogeneità linguistica,
ma il Cinquecento, il primo vero secolo
della stampa, esigeva maggiore uniformità;
e Bembo dà le proposte giuste nel momento giusto.
Nel 1525 compone le Prose della volgar lingua,
in cui vengono dati i modelli appena citati,
costituendo così una sorta di grammatica del
toscano letterario trecentesco, cioè di due
secoli prima rispetto al suo tempo. In più,
Bembo stesso compone, su queste basi, diversi
testi, che poi verranno presi come esempio.
La proposta funziona, funziona incredibilmente
bene: Petrarca resta indiscutibilmente il
massimo modello poetico per oltre
cinquecento – cinquecento! – anni,
tant’è che ancora nelle poesie ottocentesche
possiamo vederne chiaramente l’influenza.
Prendiamo Il sabato del villaggio, poesia scritta
da Giacomo Leopardi nel 1829. A un certo punto,
troviamo «su la scala a filar la
vecchierella»; nel Canzoniere, invece,
troviamo «levata era a filar la vecchiarella»:
non solo la lingua è molto simile, ma anche le
immagini poetiche che Leopardi seleziona sono
spesso d’ispirazione petrarchesca. E ancora:
leggiamo «già tutta l’aria imbruna» nel Sabato
del villaggio, mentre nel Canzoniere troviamo
«et l’aere nostro et la mia mente imbruna».
Abbiamo insomma scoperto un autore italiano
importante: importante sotto ogni punto di vista
(culturale, letterario, linguistico), anche a
livello europeo. Gli esempi non si conterebbero:
basti pensare a quanti intellettuali della Vienna
settecentesca conoscevano l’italiano grazie al
Canzoniere… E poi, grazie al suo ruolo di grande
modello di lingua poetica, Petrarca ha influenzato
per sempre le sorti dell’italiano, anche se la
storia è molto più lunga. Nel prossimo video di
questa serie parleremo della terza corona, ovvero
Giovanni Boccaccio. Nel frattempo, se non l’hai
ancora visto, ti lascio qui il mio video su Dante.