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Il tempo è denaro,
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specie se non è il vostro.
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Salve,
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34% di margine di profitto
e una redditività
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4 volte superiore
ai suoi compagni
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alla Borsa di Londra.
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Benvenuti nel mondo dell'editoria
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scientifica.
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Sono le cifre di Elsevier,
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numero 1 nel settore, che possiede
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il 16% delle riviste scientifiche
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pubblicate nel mondo.
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Se si aggiungono altri colossi
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come Springer/Nature, Wiley/Blackwell
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e Taylor and Francis,
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si arriva a un dominio
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equivalente al 40% del mercato.
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Ogni anno, gli abbonamenti
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a queste riviste generano
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7,6 miliardi di euro di fatturato.
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Qual è la formula magica?
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Semplice: chiedete a dei ricercatori
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di inviarvi i loro lavori.
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Fateli rileggere da altri ricercatori,
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se possibile senza pagarli.
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Conservate solo gli articoli con le migliori valutazioni.
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Fatene delle riviste e vendetele.
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A chi?
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Alle università in cui lavorano i ricercatori
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che vi hanno inviato gratuitamente
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i loro lavori.
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Un business model geniale!
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Sulle pagine di queste riviste private
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circolano quindi le ricerche fondamentali riguardo,
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ad esempio, il virus Ebola,
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l'inquinamento, il cancro,
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e migliaia di altri temi cruciali.
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Difficile farne a meno.
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Ogni mese, 12 milioni di ricercatori
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utilizzano Science Direct,
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il portale di pubblicazione d'Elsevier,
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in cui sono indicizzati più di 13 milioni di documenti.
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E un tale dominio ha i suoi vantaggi.
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Da 20 anni, negli USA,
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i prezzi degli abbonamenti alle riviste
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scientifiche sono aumentati
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mediamente del 7% tutti gli anni.
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Se non fosse che, con il digitale,
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i costi editoriali invece sono crollati.
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Pertanto, sempre negli ultimi 20 anni, i redditi
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e i profitti di Elsevier, ad esempio,
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sono stati moltiplicati per 4.
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Geniale al quadrato. Racket all'ennesima potenza.
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Nel 2014, in Francia, le università
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e i laboratori di ricerca
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hanno speso 105 milioni di euro
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per questi abbonamenti.
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In Inghilterra, tra il 2010 e il 2014,
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le somme pagate dalle università ai colossi
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dell'editoria scientifica sono
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aumentati del 50%.
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Un alto prezzo da pagare!
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Nel 2015, in Grecia, il portale pubblico
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online per le pubblicazioni scientifiche
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sospende il servizio per mancanza di fondi.
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Nel 2016, sempre per questioni di budget,
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l'Università di Montreal ha rinunciato a
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2116 riviste del colosso Springer/Nature
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mantenendone solo 150.
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Per i ricercatori, la fonte del lavoro
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si prosciuga.
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Poi c'è il fattore di impatto:
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la valutazione attribuita a ogni giornale per
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misurarne la notorietà.
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Più gli articoli di una rivista sono citati
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in altre ricerche, più la valutazione sale.
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Logico. O anche no.
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Prendiamo la celebre rivista Nature,
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uno dei maggiori fattori di impatto
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nel suo campo. Tra il 2008 e il 2011,
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oltre il 50% degli articoli pubblicati in Nature
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sono stati citati una sola volta,
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oppure neanche una.
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La sua notorietà è quindi dovuta a un numero limitato
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di articoli, molto citati. Relatività,
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quanto ci piaci.
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Tuttavia, pubblicare in riviste ben valutate
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è diventato un criterio di assunzione
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per i ricercatori. Che cercano quindi
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di essere presenti in questi giornali
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acquistati dalle loro università.
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Le stesse che hanno assunto dei ricercatori
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in funzione delle loro pubblicazioni.
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Avvertite il circolo vizioso?
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Non è tutto: nella maggior parte dei casi, i ricercatori
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cedono i diritti d'autore.
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Gli editori dispongono quindi di pieni diritti
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sulla circolazione dei lavori.
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La licenza Elsevier, ad esempio,
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autorizza gli abbonati a utilizzare estratti
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di testi pubblicati di massimo 200 caratteri.
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Comodo per spiegare il bosone di Higgs!
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Fortunatamente, gli editori propongono un'opzione
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di pubblicazione ad Accesso Aperto.
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L'articolo è accessibile liberamente,
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a condizione che l'autore dell'articolo
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o la sua università paghino un contributo
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alle spese di pubblicazione. Da Elsevier,
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tale contributo può arrivare a 5000 euro
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per articolo.
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In pratica, un sistema ben rodato che prende
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i risultati della ricerca - principalmente
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pubblica - e li privatizza.
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Non è sempre stato così però,
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quindi è guerra aperta
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per restituire alla ricerca la sua libertà.
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(Marin Dacos, prima)
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La questione della diffusione scientifica
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non è solo scientifica e politica,
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ma anche economica.
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È innanzitutto una questione economica
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perché si è creata a partire dagli anni 70-80
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una concentrazione di attori che hanno comprato
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e raggruppato migliaia di riviste,
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un oligopolio che ha dettato legge in materia
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di acquisizioni nelle biblioteche.
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Hanno imposto degli importi
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causando un'inflazione significativa,
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del 400% circa in una ventina di anni,
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che ha prosciugato i fondi di acquisizione.
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A causa di questo processo di inflazione
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incompatibile con qualsiasi realtà economica,
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è diventato sempre più difficile accedere alle risorse
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pubblicate dalle riviste; è essenzialmente
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attraverso le riviste scientifiche che
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i ricercatori si esprimono, quindi si riducono
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le possibilità di accesso alla ricerca per i cittadini
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e gli altri ricercatori.
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È un problema enorme visto che
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la ricerca, per il 90% pubblica,
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non è accessibile ai cittadini.
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Che si tratti di un pubblico di studenti,
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di ricercatori o di un pubblico più vasto
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di giornalisti, decisori o altre figure che potrebbero
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avere bisogno di conoscenze a cui
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non possono accedere.
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