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Un paio d'anni fa, mentre viaggiavo
in treno verso New York,
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sono stata colpita da questo cartello,
che ho fotografato:
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"I tweet non sono la storia intera".
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E ho pensato che vale
non solo per i tweet,
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ma vale per gli articoli di giornale,
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per i post su Facebook,
per le news dei telegiornali.
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E mi ha fatto riflettere
su che cosa è la verità
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nell'era della comunicazione,
e nell'era della cosiddetta post-verità,
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dove pare che le emozioni
contino più dei fatti,
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e gli effetti che si raggiungono
più della verità dei fatti stessi.
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Allora ho pensato che questo intero
nessuno può dire di possederlo.
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Non solo, ma per ricostruirlo
serve il contributo di tutti.
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E quindi il dialogo
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è una componente fondamentale
della ricerca di questa verità,
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nell'era così complessa
che viene chiamata l'era dell'antropocene,
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cioè dove l'ambiente naturale
è ormai colonizzato
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dalla tecnica e dai frutti
dell'azione dell'uomo
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e addirittura del criptocene,
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cioè dove gli algoritmi
costruiscono la realtà
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e guidano i nostri comportamenti.
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Allora la sfida è: è possibile pensare
a una comunicazione umana,
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in questo contesto?
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Ci sono gli apocalittici e gli integrati,
come diceva Umberto Eco:
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i tecno-pessimisti e tecno-ottimisti.
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I tecno-pessimisti dicono
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che la comunicazione interumana
è ostacolata dalla tecnica.
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Bansky l'ha rappresentato così;
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la famosa psicanalista
e sociologa Sherry Turkle
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dice che siamo "Soli insieme":
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fisicamente contigui,
ma disconnessi gli uni dagli altri.
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E questo è un po' letto
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come un effetto
della comunicazione digitale.
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Ma è davvero così?
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Forse, anche nel passato
i media tradizionali ci servivano
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per isolarci dal contatto oculare,
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che è sempre un invito alla comunicazione.
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Allora forse dobbiamo riflettere
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al di là di questi
schemi semplicistici, causa-effetto.
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La comunicazione digitale facilita,
o impedisce, la comunicazione tra di noi,
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anche perché se abbracciamo
questa logica di causa-effetto,
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dovremmo dire che noi abbiamo cambiato
il modo di fare colazione
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e mangiamo tost all'avocado
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perché viene meglio su Instagram
del pane con la marmellata.
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E quindi la comunicazione
digitale, e i social,
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hanno stravolto i nostri modi di vivere.
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Ma in realtà, se noi guardiamo
un po' più indietro,
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vediamo che anche nell'era televisiva
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il pallone da calcio
ha cambiato forma e colore
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per essere più visibile
agli spettatori durante le partite.
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E quindi, la parola d'ordine
non è manipolazione;
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ma è accessibilità, è condivisione.
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Personalmente, sono molto scettica
rispetto alla logica causa-effetto,
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alla logica di un determinismo:
"La tecnica produce questi effetti".
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Anche perché, se sposiamo
la logica causa-effetto,
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ci sono delle discrepanze
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anche tra autori e studiosi
molto importanti della comunicazione,
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come vedete da questi due titoli:
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quindi "la rete ci rende stupidi",
"ci rende intelligenti".
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Forse non ci rende, forse costituisce
un ambiente che ci sfida, che ci provoca.
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Ci sono molti luoghi comuni
che dobbiamo cercare di smontare:
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il dualismo è uno di questi;
il determinismo,
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il fatto che la comunicazione digitale
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non ci sottrae possibilità
di comunicare tra di noi.
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Perché viviamo "on life"
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cioè viviamo in un ambiente
che ormai è misto,
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dove ormai la dimensione fisica
e quella digitale
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sono strettamente intrecciate.
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Questo vuol dire che i media
non sono degli strumenti.
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Lo strumento è un martello,
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che sta in un cassetto, che tiro fuori
quando devo piantare il chiodo,
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e che poi rimetto via.
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E non condiziona, non modifica
il mio modo di vivere.
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Ma questi media sono sempre attivi:
noi viviamo, stiamo ora in un posto
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dove ci sono luci artificiali,
microfoni, collegamenti,
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e questo è il nostro ambiente,
tra virgolette, "naturale".
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In questo ambiente on life
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noi diventiamo chi siamo,
noi prendiamo forma,
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e prendendo forma
diamo forma all'ambiente.
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E forse questa è una nuova idea
di "in-formazione",
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prendere forma e dare forma.
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Forse se avessimo questa questa idea
di che cosa significa "in-formare",
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prendere forma e dare forma,
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avremmo un senso un po' più alto
di responsabilità
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nei confronti di quello
che ci sta intorno.
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Noi sogniamo, in realtà -
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abbiamo un po' paura
del contesto in cui viviamo.
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Sogniamo una società a rischio zero,
e anche una comunicazione a rischio zero.
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Perché abbiamo in mente
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che la comunicazione si deve modellare
sul linguaggio scientifico,
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che è un linguaggio
dove i termini sono univoci,
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sono etichette
che aderiscono perfettamente
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a quell'oggetto, o sostanza,
e solo a quella.
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Quindi, se io dico "H2O"
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è una formula che non ha possibilità
di essere fraintesa.
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Però, un grandissimo filosofo
del Novecento, Paul Ricoeur,
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diceva che la comunicazione
tra persone, tra esseri umani,
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non è un fatto, ma un miracolo.
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Non è un dato, ma un miracolo:
un miracolo che qualche volta accade,
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ma che, appunto, nasconde il fatto
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che la normalità è il malinteso,
è il fraintendimento,
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o una comunicazione
che cerca di manipolare.
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Perché noi non usiamo solo termini:
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la scienza usa solo termini,
e va benissimo.
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Ma non possiamo trasferire
questo sogno di etichette senza resto
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alla comunicazione umana,
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perché la comunicazione umana
è fatta di parole.
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Allora, se io dico "acqua"
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dico qualche cosa
che ha mille significati,
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diecimila significati simbolici:
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vuol dire purezza, vuol dire vita,
vuol dire lavarsi da ciò che è sporco,
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vuol dire poter condividere
una quotidianità semplice,
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vuol dire tantissimo.
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Allora la comunicazione umana
è fatta di parole,
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e non di termini.
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E i termini sono etichette,
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le parole sono finestre che aprono
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su mondi di significato
che sono inesauribili,
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che sono sempre arricchiti
da significati nuovi
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che ci scambiamo
nella nostra comunicazione.
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Purtroppo, noi abbiamo in mente
un'idea riduttiva di comunicazione
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come "trasmissione di messaggi",
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come "trasferimento di contenuti
da un'emittente a un ricevente".
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Non che questa accezione non esista:
ma è molto, molto riduttiva;
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e non è tipicamente umana,
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perché è un modello comunicativo
che accade anche tra macchine.
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Una macchina emette un segnale,
codificato in un linguaggio,
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l'altra macchina lo decodifica.
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Non è specifica della comunicazione umana.
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Inoltre, è un modello rigido questo,
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perché emittente, messaggio e ricevente
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non si modificano
nel corso dell'interazione.
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Semplicemente,
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c'è una specie di nastro trasportatore
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che porta un contenuto
da un punto A a un punto B:
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il contenuto rimane lo stesso.
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Anzi, in questo modello il rischio
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è che in questo passaggio
si perda informazione,
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ci siano degli elementi di rumore
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che impediscono una corretta
decodifica del messaggio.
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E in più è rigido,
perché appunto questi tre elementi,
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quattro, se ci mettiamo anche il codice,
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restano tali e quali
nel corso di questa trasformazione,
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di questa interazione.
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Non è questo il modello di comunicazione
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che caratterizza noi esseri umani.
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Perché non è questo?
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Perché nella comunicazione dialogica,
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dialogo vuol dire logos,
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parola che unisce due distanze.
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"Dia" come Diaspora, diagonale.
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Nella comunicazione dialogica,
che è la comunicazione interpersonale,
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tutto è connesso:
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siamo connessi noi che comunichiamo,
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siamo connessi a un ambiente
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che non è mai indifferente,
che ci condiziona;
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ma nello stesso tempo, che noi plasmiamo,
a cui noi possiamo dare una forma.
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E in questa reciprocità,
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in questa dinamica
di interazioni complesse,
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non riducibili a rapporti
di causa-effetto,
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in questa dinamica noi prendiamo forma
e diamo forma al mondo.
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E guardate, questo accade
nell'era digitale
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anche per chi non usa i media digitali,
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perché l'ambiente in cui noi viviamo
è appunto un ambiente misto,
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un ambiente on-life.
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Come anche chi non ha la patente
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subisce gli effetti di città costruite
per viaggiare sulle automobili.
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Quindi non possiamo tirarci fuori
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da questa "on-life"
mista a materiale digitale.
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Possiamo decidere come abitarla,
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possiamo decidere che cosa
significa vivere questa reciprocità
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dentro un ambiente misto.
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Allora, forse, dovremmo cambiare
un po' la nostra idea
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di che cosa significa diventare persone.
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Non è semplicemente tirare fuori
ciò che già siamo,
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ma costruirci in relazione
a ciò che ci interpella, ci provoca,
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ci mette in movimento.
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È un dinamismo che caratterizza
la comunicazione interpersonale.
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Noi non siamo individui
che costruiscono relazioni,
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che affermano, che trasmettono contenuti;
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ma noi siamo esseri che si individuano,
che continuamente prendono forma,
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che diventano chi sono, nel tempo,
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in relazione con l'ambiente
e con altre persone.
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E comunicare non è, in questo contesto,
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"dire qualcosa a qualcuno",
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o "trasmettere un contenuto
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che è già tutto presente
nella nostra testa".
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Comunicare è appunto partire
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da una situazione di fraintendimento,
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di distanza, di fatica a comprendersi,
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e cercare di ridurre questa distanza.
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Comunicare ha la radice communis,
che vuol dire appunto "mettere in comune"
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costruire un mondo comune
da abitare insieme.
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È una rivoluzione rispetto all'idea
della trasmissione,
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a un'idea rigida in cui
"io ho la mia verità, e te la dico".
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È una rivoluzione rispetto al mondo
delle fake news che spaccano la comunità,
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perché tu ti devi schierare
da una parte o dall'altra.
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Io penso che il significato autentico
della comunicazione
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sia esattamente il contrario,
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cioè ridurre le distanze,
ritessere legami,
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ricucire il tessuto sociale
con piccoli passi nel tempo,
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e non nello schieramento spaziale
che richiedono le fake news,
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nel tempo ricucire queste distanze.
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C'è un'ultima cosa che vorrei dire,
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e la dico con l'opera di uno
dei miei scultori preferiti,
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che è Auguste Rodin.
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Questa scultura,
che ho visto personalmente,
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si chiama "Il segreto"
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ed è una bella immagine della nostra,
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insieme, fatica e desiderio di comunicare.
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Allora, queste due mani,
una maschile e una femminile,
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si toccano in un punto,
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perché se non ci fosse
nemmeno un punto di contatto
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noi non potremmo scambiarci
nessuna comunicazione,
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non potremmo ridurre nessuna distanza.
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Nello stesso tempo,
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tra queste due mani
c'è un corpo misterioso,
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c'è un qualcosa di solido, di opaco.
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Perché noi, comunicando,
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non possiamo mai pretendere
che l'altro ci sia trasparente,
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pretendere di capire tutto,
di spiegare ogni cosa;
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e soprattutto, di farlo
immediatamente, con un clic.
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Ci vuole la pazienza
di ridurre questo volume,
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e di ridurre questa distanza sapendo:
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da una parte, che non potrà mai
essere cancellata del tutto;
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e dall'altra parte,
che non possiamo mai smettere
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di desiderare di ridurla, questa distanza.
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Allora, questo è il desiderio
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che ci fa continuare
a camminare verso gli altri.
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Questo è il desiderio
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che rende molto più alta
la qualità della nostra comunicazione .
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In questa tensione feconda
tra nascondimento e svelamento,
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tra presente dell'incompresione
e futuro di una speranza di comprensione,
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tra trasparenza e opacità, in tutto questo
la comunicazione si arricchisce.
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E se si arricchisce la comunicazione,
-
diventa anche molto più abitabile
il mondo che abbiamo intorno.
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(Applausi)