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Title:
La tirannia del merito
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Description:
Qual è la causa della nostra vita pubblica polarizzata e come possiamo iniziare a porvi rimedio?
Il filosofo della politica Michael Sandel offre una risposta sorprendente: chi ha raggiunto il successo deve guardarsi allo specchio. Esplora il modo in cui "l'arroganza meritocratica" ha portato i più a credere che il loro successo sia esclusivamente merito loro e a guardare dall'altro al basso colore che non ce l'hanno fatta, provocando così del risentimento e accentuando il divario tra "vincitori" e "perdenti" nella new economy. Ascolta la ragione per la quale abbiamo bisogno di rivedere il significato di successo e riconoscere il ruolo della fortuna al fine di creare una vita civile meno rancorosa e più generosa.
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Speaker:
Michael Sandel
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Ecco una domanda
che tutti dovremmo porci:
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Cos'è andato storto?
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Aldilà della pandemia,
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intendo con la nostra vita civile.
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Come siamo arrivati
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a questo momento politico
polarizzato e rancoroso?
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il divario tra vincitori e perdenti
è cresciuto sensibilmente,
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avvelenando la nostra politica,
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dividendoci.
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Questa divisione ha in parte
a che fare con la disuguaglianza.
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Ma anche con il nostro atteggiamento
nei confronti di vittoria e sconfitta
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che ne derivano.
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Chi è arrivato ai gradini più alti
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si è convinto che il proprio successo
lo debba solo a se stesso,
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come fosse un metro del loro merito,
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e chi ha perso, a sua volta,
può incolpare solo se stesso.
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Questo modo di guardare al successo
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deriva da un principio
apparentemente attraente.
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Se tutti abbiamo le stesse possibilità,
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i vincitori meritano la loro vittoria.
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Sono le basi del concetto di meritocrazia.
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La pratica, ovviamente, è molto diversa.
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Non tutti
hanno le stesse possibilità di ascesa.
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I bambini nati in famiglie povere
tendono a rimanere poveri crescendo.
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I genitori agiati possono dare in eredità
le loro ricchezze ai propri figli.
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Nelle migliori università, per esempio,
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ci sono più studenti appartenenti
all'uno per cento dei privilegiati
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che al resto della popolazione
ai livelli inferiori sommata insieme.
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Ma il problema non è unicamente
il fatto che abbiamo fallito nel seguire
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i principi di meritocrazia
che tanto acclamiamo.
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L'ideale in sé è difettoso.
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Ha un lato oscuro.
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La meritocrazia è corrosiva
del bene comune.
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Porta all'arroganza dei vincitori
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e all'umiliazione di chi ha perso.
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Incoraggia chi ha successo
a crogiolarsivi troppo
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dimenticando la fortuna
che li ha aiutati nel loro percorso.
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E li porta a guardare dall'alto al basso
i meno fortunati,
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meno qualificati di loro.
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La politica deve interessarsi a ciò.
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Una delle maggiori cause
di sommosse popolari
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è la sensazione degli operai
di essere giudicati dall'élite del paese.
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È una rimostranza più che giustificata.
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Anche se la globalizzazione
ha portato ad una maggiore disuguaglianza
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e alla stagnazione dei salari,
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i suoi propugnatori hanno offerto
dei consigli rincuoranti ai lavoratori.
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"Se vuoi competere e vincere
nell'economia globale,
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vai all'università."
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"Ciò che guadagni dipende
da quanto hai imparato."
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"Ce la puoi fare se solo provi."
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Questi privilegiati non notano
l'insulto implicito in questi consigli.
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Se non vai all'università,
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se non raggiungi il successo
nella new economy,
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il tuo fallimento è solo colpa tua.
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Questo è il messaggio sottinteso.
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Non stupisce che molti operai
si scaglino contro i privilegiati.
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Dobbiamo rivedere
tre aspetti della nostra vita civile.
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Il ruolo dell'università,
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la dignità del lavoro
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e il significato del successo.
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Per prima cosa rivedere
il ruolo delle università
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ora percepite come arbitri di opportunità.
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Per chi come noi fa parte
della percentuale di qualificati
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è facile dimenticarsi
di un semplice fatto:
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Molte persone non hanno una laurea.
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Infatti, sono quasi i due terzi
gli americani che non ce l'hanno.
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È quindi folle creare un'economia
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che fa della laurea
un requisito fondamentale
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per un lavoro rispettabile
e una vita dignitosa.
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Incoraggiare le persone ad andare
all'università è una cosa positiva.
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Aprirne le porte
a coloro che non possono permettersela
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è ancora meglio.
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Ma questa non è la soluzione
alla disuguaglianza.
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Dovremmo pensare meno a ferire
gli altri in nome della meritocrazia,
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e concentrarci di più
nel rendere la vita migliore
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a quelle persone
che non hanno un diploma
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ma che contribuiscono
in modo fondamentale alla società.
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Dovremmo rivedere la dignità del lavoro
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e metterla al centro
della nostra politica.
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Dovremmo tenere a mente che il lavoro
non serve solo a guadagnarsi da vivere,
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ma è anche un modo
per contribuire al bene comune
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e ottenere così un riconoscimento.
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Robert F. Kennedy
lo spiegò bene mezzo secolo fa.
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Fratellanza, comunità,
patriottismo condiviso.
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Questi valori essenziali non derivano
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solo dal comprare e consumare
dei beni insieme.
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Vengono da impieghi dignitosi,
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una paga decente.
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Il tipo di impiego
che ci permetta di dire
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"Ho aiutato a costruire questo paese.
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Ho preso parte
a questa impresa comune."
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Questo senso civico
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manca nella vita pubblica odierna.
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Spesso diamo per scontato
che i soldi che una persona guadagna
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misurino la portata
del suo contributo per il bene comune.
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Ma non è così.
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Martin Luther King Jr. ha spiegato perché.
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Riferendosi ad uno sciopero
da parte degli operatori ecologici
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a Memphis, nel Tennessee,
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poco prima di essere assassinato,
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King disse,
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"Coloro che raccolgono la nostra
spazzatura sono, alla fine dei conti,
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tanto importanti quanto i medici,
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perché se non svolgessero il loro lavoro,
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le malattie dilagherebbero.
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Ogni lavoro è nobile."
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La pandemia odierna l'ha reso chiaro.
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Dimostra quando dipendiamo
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dai lavoratori che spesso ignoriamo.
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Fattorini,
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manutentori,
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commessi dei supermercati,
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magazzinieri,
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camionisti,
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assisenti sanitari,
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educatori,
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badanti.
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Questi non saranno i lavoratori
più pagati o rispettati.
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Ma ora, li percepiamo come essenziali.
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È il momento di sollevare
un dibattito pubblico
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per far sì che il loro stipendio
e il loro riconoscimento pubblico
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diventino più rappresentativi
dell'importanza del loro lavoro.
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È anche il momento per una svolta,
morale così come spirituale,
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per mettere in discussione
la nostra presunzione meritocratica.
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Dal punto di vista morale, merito
i talenti grazie ai quali ho successo?
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È merito mio
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se vivo in una società
che riconosce e dà importanaza ai talenti
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che io per puro caso ho?
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O in realtà ho solo avuto fortuna?
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Insistere nel credere
che il mio successo sia merito mio
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mi rende difficile
immedesimarmi negli altri.
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Riconoscere il ruolo
che la fortuna gioca nella vita
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suggerisce una certa dose di umiltà.
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Sono arrivato lì perché ho avuto
la fortuna di nascere in un certo posto,
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per grazia divina
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o per puro caso.
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è la dote civica che necessitiamo ora.
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È l'inizio di un allontanamento
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dalla dura etica del successo
che finisce col separarci.
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Ci eleva al di sopra
di questa tirannia del merito
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verso una vita pubblica
meno rancorosa e più generosa.