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Title:
Quante vite possiamo vivere?
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Description:
La poetessa di versi parlati Sarah Kay era sbalordita dal fatto di non poter essere una principessa, una ballerina e un'astronauta nel corso della sua esistenza. In questo intervento, recita due intense poesie che ci mostrano come possiamo vivere altre vite.
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Speaker:
Sarah Kay
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(Cantando) Vedo la luna.
La luna vede me.
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La luna vede qualcuno che io non vedo.
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Dio benedici la luna, e Dio benedicimi.
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E Dio benedici quel qualcuno
che io non vedo.
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Se andrò in paradiso prima di te
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farò un buco e ti tirerò su.
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E scriverò il tuo nome su ogni stella,
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e in questo modo il mondo
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non sembrerà così distante.
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L'astronauta non lavorerà oggi.
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Si è dato malato.
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Ha spento il cellulare, il pc,
il cercapersone, la sveglia.
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C'è un grasso gatto giallo
che dorme sul divano,
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gocce di pioggia contro la finestra
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e neanche una traccia di caffè
nell'aria della cucina.
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Tutti sono in agitazione.
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Gli ingegneri al 15° piano hanno smesso di
lavorare alla macchina delle particelle.
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La stanza anti-gravità perde,
e pure
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il bimbo lentigginoso
con gli occhiali,
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che deve solo portare fuori
l'immondizia, è nervoso,
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rovescia una buccia
di banana e un bicchiere di carta.
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Nessuno se ne accorge.
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Sono troppo occupati a ricalcolare cosa
comporta tutto ciò in tempo perso.
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Quante galassie stiamo
perdendo al secondo?
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Tra quanto si può
lanciare un altro razzo?
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Da qualche parte un elettrone
schizza via dalla sua nube energetica.
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Un buco nero ha eruttato.
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Una madre finisce di apparecchiare
per la cena.
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Sta cominciando una maratona di Law&Order.
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L'astronauta è addormentato.
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Ha dimenticato di spegnere l'orologio,
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che ticchetta, come un battito
metallico contro il polso.
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Lui non lo sente.
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Sogna barriere coralline e plancton.
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Le sue dita trovano
gli alberi maestri della federa.
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Si gira su un fianco,
subito apre gli occhi.
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Pensa che i sub debbano avere
il lavoro più bello al mondo.
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Così tanta acqua attraverso cui scivolare!
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Quando ero piccola, non capivo il concetto
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del poter vivere una vita sola.
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Non parlo metaforicamente.
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Voglio dire, pensavo letteralmente
che sarei riuscita a fare
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tutto quel che c'era da fare
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e a essere tutto quel che si può essere.
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Era solo questione di tempo.
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E non c'erano limiti di età o genere
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o razza o anche solo
un appropriato periodo di tempo.
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Ero sicura che avrei davvero sperimentato
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come ci si sente a essere il leader
di un movimento per i diritti civili,
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o un bambino di dieci anni in una fattoria
durante una tempesta di sabbia,
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o un imperatore cinese
della dinastia Tang.
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Mia madre dice che quando la gente
mi chiedeva
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cosa volevo essere da grande,
la mia risposta tipica era:
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principessa-ballerina-astronauta.
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E ciò che non capisce è che non stavo
cercando di inventare
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un qualche super mestiere combinato.
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Stavo elencando le cose che pensavo
che sarei riuscita ad essere:
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una principessa e una ballerina
e un'astronauta.
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E sono piuttosto sicura che quella
lista andasse ancora avanti.
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Di solito mi interrompevano.
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Non mi chiedevo mai "se" sarei riuscita
a fare qualcosa,
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la domanda era piuttosto "quando".
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Ed ero certa che, se dovevo fare tutto,
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probabilmente mi sarei dovuta
dare una mossa,
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perché c'erano un sacco di cose
che dovevo fare.
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Perciò la mia vita era sempre di corsa.
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Avevo sempre paura di rimanere indietro.
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E dato che sono cresciuta a New York,
per quanto potevo saperne
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essere di corsa era piuttosto normale.
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Ma crescendo ho tristemente realizzato
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che non sarei riuscita a vivere
niente più di una singola vita.
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Sapevo solo come ci si sentiva
ad essere un'adolescente
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a New York,
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non un ragazzo in Nuova Zelanda,
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non una reginetta del ballo in Kansas.
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Mi era dato di vedere
solo con i miei occhi.
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Ed è in quel periodo che le storie
hanno cominciato a ossessionarmi,
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perché era attraverso le storie
che ero in grado di vedere
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con gli occhi di qualcun'altro, per quanto
di sfuggita o in modo imperfetto.
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E ho iniziato a morire dalla voglia
di sentire le esperienze altrui
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perché ero così invidiosa
che ci fossero intere vite
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che non avrei mai vissuto,
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e volevo sapere di tutto quello
che mi stavo perdendo.
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E per proprietà transitiva,
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ho realizzato che alcune persone
non avrebbero mai potuto provare
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come ci si sente a essere
un'adolescente a New York.
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Cioè loro non avrebbero mai saputo
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com'è andare in metro
dopo il tuo primo bacio,
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o come tutto diventa silenzioso
quando nevica.
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E io volevo che lo sapessero,
volevo raccontarglielo.
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E questo è diventato il cuore
della mia ossessione.
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Ho preso a raccontare storie,
a condividerle, a collezionarle.
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Ed è solo di recente
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che ho realizzato che non sempre
posso mettere fretta alla poesia.
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Ad aprile, per il National Poetry Month,
c'è una competizione
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a cui partecipano molti membri
della comunità poetica,
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ed è chiamata la 30/30 Challenge.
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L'idea è che devi scrivere
una nuova poesia
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ogni singolo giorno
per tutto il mese di aprile.
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L'anno scorso ho provato
per la prima volta
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ed ero elettrizzata dall'efficienza
con cui riuscivo a produrre poesie.
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Ma alla fine del mese ho guardato
le 30 poesie che avevo scritto
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e ho scoperto che tentavano tutte
di raccontare le stessa storia;
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solo che mi ci erano voluti 30 tentativi
per capire come voleva essere raccontata.
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E ho capito che probabilmente questo vale
per altre storie su una scala più larga.
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Ho storie che ho tentato
di raccontare per anni,
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scrivendo e riscrivendo e cercando
senza sosta le parole giuste.
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C'è un poeta e saggista francese
che si chiama Paul Valéry,
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che disse che una poesia non è
mai finita, solo abbandonata.
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E questo mi terrorizza,
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perché implica che potrei continuare
a correggere e riscrivere per sempre
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e dipende solo da me decidere
quando una poesia è finita
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e posso lasciarla e andarmene.
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E ciò va proprio contro
la mia natura ossessiva
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di cercare di trovare la risposta giusta,
le parole perfette, la giusta forma.
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Uso la poesia nella mia vita
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perché mi aiuta ad attraversare
e ad analizzare le cose.
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Ma solo perché finisco una poesia
non significa che ho risolto
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ciò che stavo rimuginando.
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Mi piace rivedere le vecchie poesie,
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perché mi mostrano esattamente
dove mi trovavo in quel momento
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e che cosa cercavo di attraversare
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e le parole che ho scelto per aiutarmi.
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su cui ho continuato a rimuginare
per anni e anni
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e non sono sicura di aver trovato
la forma perfetta,
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o se questo è solo un tentativo
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e più tardi proverò a riscriverla cercando
un modo migliore per raccontarla.
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Ma so che dopo, quando
mi guarderò indietro
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saprò che qui è dove mi trovavo
in questo momento
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e questo è ciò che tentavo di attraversare
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con queste parole, qui,
in questa stanza con voi.
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Sorridete.
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Non è sempre andata così.
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C'era un tempo in cui dovevate
sporcarti le mani.
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Quando eravate al buio, in molti casi
l'andare a tentoni era un dato di fatto.
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Se vi servivano più contrasto,
più saturazione,
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scuri più scuri e chiari più chiari,
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lo chiamavano sviluppo prolungato.
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Significava passare più tempo a respirare
sostanze chimiche fino ai polsi
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Non era sempre facile.
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Nonno Stewart era
un fotografo della Marina.
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Giovane, viso arrossato,
le maniche arrotolate,
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pugni con dita grosse
come rotoli di monete,
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sembrava Braccio di Ferro
fatto uomo.
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Sorriso sbilenco,
ciuffo di peli sul petto,
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si presentò alla Seconda guerra mondiale
con un sorrisetto e un hobby.
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Quando gli chiesero se se ne intendeva
di fotografia,
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mentì, imparò a leggere l'Europa
come una mappa,
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dall'alto in basso, dall'altezza
di un aereo da combattimento,
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scatto della macchina, battito di ciglia,
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gli scuri più scuri e i chiari più chiari.
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Imparò la guerra come poté
leggere il suo ritorno a casa.
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Quando altri uomini tornavano,
mettevano le loro armi a riposo,
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ma lui portò a casa le sue lenti
e le sue macchine.
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Aprì un negozio,
lo trasformò nell'attività di famiglia.
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Mio padre è nato in questo
mondo in bianco e nero.
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Le sue mani fatte per il basket hanno
imparato gli scatti e lo slittare
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delle lenti nella cornice,
della pellicola nella macchina
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e dei prodotti chimici
nel bidone.
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Suo padre conosceva l'attrezzatura
ma non l'arte.
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Conosceva gli scuri ma non i chiari.
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Mio padre imparò la magia,
passò il suo tempo a seguire la luce.
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Una volta ha viaggiato attraverso il paese
per seguire un incendio boschivo,
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dandogli la caccia con la macchina
fotografica per una settimana.
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"Segui la luce", diceva.
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"Segui la luce."
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Ci sono parti di me che riconosco
solo in fotografia.
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Il loft in Wooster Street
con i corridoi scricchiolanti,
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il soffitto a 3,5 metri,
muri bianchi e pavimenti freddi.
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Era casa di mia madre,
prima che fosse mia madre.
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Prima di essere moglie, era un'artista.
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E le uniche due stanze della casa
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con i muri che arrivavano
fino al soffitto
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e porte che si aprivano
e chiudevano
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erano il bagno e la camera oscura.
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La camera oscura l'aveva costruita lei,
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con lavelli d'acciaio fatti su misura,
un ingranditore 8x10
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che andava su e giù
grazie a un'enorme manovella,
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luci per il bilanciamento cromatico,
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una parete di vetro bianco
per le stampe,
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uno stendino che si poteva
estrarre dal muro.
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Mia madre costruì
la camera oscura da sola.
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Ne fece la sua casa.
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Si innamorò di un uomo
con mani da basket,
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del modo in cui guardava la luce.
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Si sposarono. Ebbero una bimba.
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Traslocarono vicino al parco.
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Ma tennero il loft in Wooster Street
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per le feste di compleanno
e la caccia al tesoro.
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La bimba inclinò la scala di grigi,
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riempì gli album dei suoi
con palloncini rossi e glassa gialla.
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La bimba diventò una ragazza
senza lentiggini,
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con un sorriso sbilenco,
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che non capiva perché i suoi amici
non avessero camere oscure a casa,
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che non vedeva mai i suoi baciarsi,
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che non li vedeva mai tenersi per mano.
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Ma un giorno, arrivò un altro bebè.
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Con capelli perfettamente lisci
e guance di gomma da masticare.
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Lo chiamarono patata dolce.
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Quando rideva, rideva così forte
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da spaventare i piccioni
sulla scala anti-incendio.
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E loro quattro vivevano
nella casa vicino al parco.
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La ragazza senza lentiggini,
il bambino patata dolce,
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il padre basket e la madre camera oscura.
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E accendevano candele
e recitavano le loro preghiere,
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e gli angoli delle fotografie
si arricciavano.
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Un giorno, delle torri caddero.
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E la casa vicino al parco divenne
una casa sotto la cenere, così fuggirono
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con gli zaini, sulle bici,
in camere oscure.
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Ma il loft in Wooster Street era fatto
per un artista
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non per una famiglia di piccioni,
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e i muri che non raggiungevano il soffitto
non trattenevano le urla,
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e l'uomo con le mani da basket
mise via le sue armi.
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Non poteva combattere questa guerra,
e nessuna mappa portava a casa.
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Le sue mani non conoscevano
più la macchina fotografica,
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le mani di sua moglie,
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il suo stesso corpo.
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Il bambino patata dolce si schiacciò
i pugni in bocca
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finché non ebbe più nulla da dire.
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Così la ragazza senza lentiggini
andò a caccia del tesoro da sola.
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E in Wooster Street, in un edificio
con i corridoi scricchiolanti
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e il loft con soffitti alti 3,5 metri
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e la camera oscura con troppi lavelli,
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sotto le luci di bilanciamento cromatico
trovò un biglietto
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fissato al muro con una puntina,
rimasuglio di un tempo prima delle torri,
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di un tempo prima dei bambini.
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E il biglietto diceva: "Un ragazzo ama
di certo la ragazza nella camera oscura."
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Era un anno prima che mio padre prendesse
di nuovo una macchina fotografica.
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Alla sua prima uscita,
seguì le luci di Natale
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che punteggiavano gli alberi
di New York,
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puntolini di luce che occhieggiavano
verso di lui dal più scuro degli scuri.
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Un anno dopo viaggiava attraverso il paese
per seguire un incendio boschivo.
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Per una settimana lo seguì
con la sua macchina fotografica:
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stava distruggendo la West Coast,
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divorando auto-snodati al suo passaggio.
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Dall'altra parte del paese,
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io andai a lezione e scrissi una poesia
sui bordi del mio quaderno.
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Abbiamo entrambi imparato
l'arte del catturare.
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Forse stiamo imparando
l'arte dell'abbracciare.
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Forse stiamo imparare
l'arte del lasciar andare.
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