Quindici anni fa pensavo che il tema della diversificazione non meritasse tanta attenzione. Era una causa già combattuta dalle precedenti generazioni. Nella mia università uomini e donne studiavano in pari proporzioni, e le donne spesso ottenevano voti migliori. Quindi, anche se non tutto filava alla perfezione, diversificazione e opportunità di leadership sarebbero arrivate naturalmente con il tempo, giusto? Be', non proprio. Man mano che facevo carriera come consulente manageriale in Europa e negli Stati Uniti, iniziai a notare quanto spesso fossi la sola donna nella stanza e quanto il panorama della leadership sia rimasto tutt'ora omogeneo. Molti dei leader che ho incontrato trattavano la diversificazione come un dovere, per correttezza politica, o come "la cosa giusta da fare", nel migliore dei casi, ma non come una priorità aziendale. Semplicemente, non avevano motivo di credere che la diversificazione li avrebbe aiutati a conseguire gli obiettivi più pressanti, far quadrare i conti, far uscire il nuovo prodotto, che misurano il loro valore di mercato. La mia esperienza personale, lavorando con squadre eterogenee, ha rivelato che, malgrado un piccolo sforzo aggiuntivo iniziale, le idee che ne scaturivano erano più fresche, più innovative. Perciò iniziai a chiedermi: le organizzazioni più diversificate sono davvero più innovative, e la diversificazione può andare oltre un dovere da compiere? Possiamo renderla un vero vantaggio competitivo? Per scoprirlo, elaborammo uno studio con la Technical University di Monaco. Analizzammo 171 aziende in Germania, Austria e Svizzera, e mentre parliamo lo studio si sta estendendo a 1.600 aziende in altre cinque nazioni del mondo. Sostanzialmente, abbiamo chiesto alle aziende due cose: quanto sono innovative e quanta diversificazione ospitano. Per la prima domanda, abbiamo chiesto i loro "proventi da innovazione". Vale a dire, la quota dei ricavi generata da nuovi prodotti e dai servizi negli ultimi tre anni, per cui non chiedevamo loro quante idee creative avessero avuto, ma se queste idee si fossero tradotte in prodotti e servizi che rendevano la loro azienda un caso di successo per oggi e domani. Per misurare la diversificazione, invece, abbiamo osservato 6 fattori diversi: tra cui nazione d'origine, età e genere. Mentre ci preparavamo a visitarli con queste domande, mi sedetti con il mio team e discutemmo i risultati che ci saremmo dovuti aspettare. L'ottimismo, a dir poco, latitava. Il componente più scettico del team pensò, o ritenne ben possibile, che non saremmo venuti a capo di nulla. La maggioranza ebbe un approccio più prudente, per cui finimmo per adottare un approccio alla "solo se": forse avremmo trovato qualche tipo di legame tra innovazione e diversificazione, ma non a prescindere. Piuttosto, solo se avessimo rilevato certe condizioni, per esempio uno stile di leadership molto aperto, che facesse sentire le persone libere di dire la loro, e contribuire. Un paio di mesi dopo arrivarono i dati, e i risultati convinsero anche i più scettici. La risposta era un chiaro sì, senza se e senza ma. I dati del nostro campione mostravano che le aziende più diversificate erano più innovative, punto e basta. Ora viene da chiedersi se sia nato prima l'uovo o la gallina: le aziende sono più innovative perché hanno una leadership più composita, o il contrario? Cosa causa cosa? Non siamo in grado di prediligere la correlazione alla causalità, ma possiamo dire, con certezza, che nel nostro campione le aziende più aperte alla diversificazione sono anche le più innovative, e che le aziende più innovative hanno anche una leadership più varia. Quindi possiamo presumere che funzioni nei due sensi: la diversificazione promuove l'innovazione e viceversa. Una volta pubblicati i risultati, fummo sorpresi dalle reazioni dei media. Avevamo ricevuto molta attenzione. I toni erano passati dalla piatta cronaca, come "L'innovazione aumenta con più donne nella forza lavoro, " a toni un po' più sensazionalistici. (Risate) Come potete vedere, "L'inattività femminile ci costa trilioni di dollari" e il mio preferito: "Le casalinghe uccidono l'innovazione". Be', la cattiva pubblicità non esiste, vero? (Risate) Sull'onda di quella attenzione abbiamo iniziato a ricevere chiamate da senior executive che volevano capirci di più, specialmente, udite, udite! sulla diversità di genere. Di solito tendo ad aprire quelle discussioni chiedendo: "Che opinione hai della situazione attuale nella tua organizzazione?" E una reazione frequente a questa domanda è: "Be', ancora non ci siamo, ma non va poi così male". Un dirigente, per esempio, mi ha detto: "In fondo non va così male. Una donna c'è, nel CdA". (Risate) Voi ridete, ma -- (Applausi) Voi ridete, ma aveva i propri motivi per andarne fiero, perché in Germania, se gestite un'azienda e anche un solo membro del CdA è donna, fate parte di un selezionato gruppo di 30 tra le 100 principali aziende quotate. Le altre 70 hanno un CdA di soli uomini, e in nemmeno una di questa rosa di 100 aziende quotate l'amministratore delegato, a oggi, è donna. Ma ecco lo spunto più importante: anche se in tutte e queste 100 aziende le donne giungessero ai vertici, da sole non farebbero la differenza. I dati ci mostrano che per far incidere la diversità di genere sull'innovazione la quota di donne leader deve superare il 20%. Diamo un'occhiata ai numeri. Come potete vedere, abbiamo diviso il campione in tre gruppi, e i risultati sono eclatanti. Solo nel gruppo dove la leadership femminile supera il 20% si osserva un netto incremento dei proventi da innovazione, che si innalzano sopra la media. L'esperienza e i dati, dunque, mostrano la necessità di una massa critica che muova l'ago della bilancia e aziende come Alibaba, JP Morgan o Apple hanno raggiunto già oggi quella soglia. Un'altra reazione che osservavo spesso era: "Be', col tempo si risolverà". E ho tutta la simpatia del mondo per questo punto di vista, perché anch'io la pensavo così. Ma diamo un'altra occhiata ai numeri, prendendo ad esempio la Germania Partiamo dalle buone notizie. La quota di donne che si laurea e ha almeno dieci anni di esperienza professionale al suo attivo è cresciuta in modo consistente negli ultimi 20 anni. Ciò mostra che il bacino da cui attingere posizioni femminili di leadership è aumentato nel tempo. Una cosa grandiosa. Ma stando alla mia teoria precedente la quota di donne leader sarebbe dovuta crescere più o meno in parallelo. Guardiamo cos'è successo, in realtà. Non ci va nemmeno vicino, il che significa che mi sbagliavo totalmente e che la mia generazione. la vostra generazione, la generazione femminile più istruita di tutti i tempi, non ce l'ha fatta. Non siamo arrivate a una quota significativa di donne leader. L'istruzione non ha portato automaticamente alla leadership. Per me è stato doloroso prenderne atto, e mi ha portato a pensare: se vogliamo cambiare tutto questo, dobbiamo impegnarci, fare qualcosa di meglio. Ma cosa si potrebbe fare? Superare il 20% di leadership femminile è un compito che scoraggerebbe molti, il che è comprensibile, vista la media generale. Ma è fattibile, e ci sono molte aziende, oggi, che fanno progressi e conseguono questi obiettivi. Prendiamo ad esempio SAP, l'azienda di software. Nel 2011, la percentuale di donne in posizioni apicali era del 19%, ma decisero di fare di meglio, e fecero quello che si fa in ogni altro settore di business, quando si decide di migliorarlo: fissarono un obiettivo misurabile. Decisero di raggiungere il 25% di leadership femminile entro il 2017, e l'hanno appena raggiunto. Tale obiettivo li ha resi più creativi nella formazione dei leader e nell'attingere a nuovi bacini di impiego. Ora vogliono addirittura arrivare al 30% di donne manager entro il 2022. L'esperienza mostra quindi che è possibile e che in fin dei conti tutto dipende da due decisioni che ogni giorno, in ogni organizzazione, molti di noi prendono: chi assumere, chi formare e chi promuovere. Ora, non ho nulla contro i programmi per le donne. le reti di contatti, la formazione, il mentoring. Sono tutte cose egregie. Ma sono queste due le decisioni che in definitiva mandano il segnale di cambiamento più potente in ogni organizzazione. Fare la paladina della diversità non è mai stato il mio scopo. Sono una consulente aziendale, io. Ma ora il mio scopo è cambiare il volto della leadership, arricchirla di diversità, e non perché la dirigenza possa spuntare una casella e avere la sensazione di aver compiuto una formalità o al massimo essere stati politicamente corretti. Ma perché capiscono che la diversificazione aiuta a rendere la loro organizzazione migliore e più innovativa. E accogliendo la diversificazione, la pluralità di talenti, diamo una vera opportunità a tutti. Grazie. Grazie a tutti, davvero. (Applausi)