A quest'ora del pomeriggio, vi chiedo di fare uno sforzo piccolo e cioè di provare, ognuno di voi, ad associare nella vostra mente un'immagine alla parola museo, in particolare se dico un museo di storia naturale, un museo scientifico. Probabilmente, alla maggior parte di voi verrà in mente un'immagine noiosa come questa, cioè un luogo un po' polveroso, silenzioso, un'atmosfera un po' rarefatta, una moltitudine di oggetti disposti in teche di vetro, disposti ortogonalmente e in effetti è così. Questa è l'eredità che ci arriva del museo, dal museo illuminista. Come dirà Karl Popper, l'ingenuità anche delle idee illuministe, l'illuminismo si inventa il museo e eredita delle collezioni, le "wunderkammer", le collezioni private che dal Medioevo fino al '600 i ricchi signori avevano collezionato e le fa diventare pubbliche e inventa il museo. Ma questo museo, per tanto tempo, funziona su un paradigma: non toccare. E "non toccare" funziona per un sacco di tempo. Io faccio parte di una generazione, come molti di voi, che è cresciuta con una cantilena: guardare e non taccare è una cosa da imparare. È una virtù sociale. È la coltivazione di un aspetto comportamentale, di una virtù: non toccare. E dovremmo arrivare fino ai primi anni del '900 prima che qualcosa cambi, però, ad un certo punto, accade un evento che cambia il punto di vista. Nel 1851 a Londra c'è questo evento pazzesco, il primo Expo della storia, e si chiama la Grande Esposizione Universale. Già la parola universale nel 1851 ci fa pensare che è un progetto molto ambizioso. E infatti nasce con l'idea di celebrare la potenza coloniale britannica, no? È un evento incredibile. Giusto per capirci, in sei mesi lo visitano sei milioni di persone, praticamente un terzo della popolazione della Britannia di allora. Ci sono 13.000 espositori da 45 paesi diversi. In realtà, lì c'è il germe di quello che un secolo e mezzo dopo avremmo cominciato a chiamare globalizzazione, no? Per la prima volta, si vedono cose che non si erano mai viste. All'interno c'è di tutto. Eccellenze artigianali da tutto il mondo, tessuti, ceramiche, trofei di animali esotici, ma si va dall'esposizione del Koh-i-Noor, che è il diamante più grande conosciuto all'epoca fino all'esposizione di strumenti scientifici, sperimentazioni scientifiche, strumenti di misurazione. Ma la cosa più affascinante è questa, cioè che vengono esposte le macchine. Macchine a vapore, processi industriali... Si è parlato poco fa del telaio. La presentazione del primo telaio Jacquard. È la rivoluzione industriale su un palcoscenico. È la vertigine della modernità. C'è questa grande promessa di un futuro migliore, la modernità finalmente emancipa l'uomo dalla natura. È il dominio definitivo, abbiamo dominato tutto ciò e tutti vivremo meglio. Ma la cosa più affascinante, quella che mi interessa mettere in rilievo, è che si scopre, in questo evento, la potenza spettacolare e straordinaria della scienza e della tecnologia. Questo evento sarà visitato, appunto, abbiamo detto da sei milioni di persone. I biglietti all'inizio costeranno più di £350, dopo tre mesi si abbassa ad un prezzo di £3, di modo che lo possano vedere tutti. Lo vedono tutti, dalla famiglia reale fino alla working class. E tutti rimangono profondamente sbalorditi a vedere questa esposizione di scienza e di tecnica. Questo evento va talmente bene dal punto di vista di questa scoperta e di questa spettacolarità di scienza e tecnica e va talmente bene da un punto di vista economico, forse l'unico Expo della storia che guadagna, al cambio di oggi hanno guadagnato 18 milioni di Sterline, che a Londra si decide di aprire tre musei: il Victoria and Albert Museum, ça va sans dire, il principe Alberto ha voluto l'evento, il Natural History Museum e il Science Museum di Londra, e proprio il Science Museum di Londra è uno di quelli che ci interessa di più capire come funziona. Dovrà passare ancora tanto tempo, ma nel 1934 il Science Museum di Londra fa una cosa, apre una Children's Gallery, cioè una galleria per bambini, dove per la prima volta i bambini possono toccare. Ci sono esperimenti di fisica che sono fatti con degli exhibit, i cosiddetti "hands-on", cioè da toccare, e comincia a cambiare, comincia ad innescarsi il mutamento. È l'inizio di un modello esperienziale di museo: è partecipativo, è interattivo, richiede una fruizione diretta. Poi questo signore sbaraglierà le carte. Questo signore si chiama Frank Oppenheimer, è americano, è un fisico delle particelle, è un professore all’Università del Colorado ed è il fratello di un Oppenheimer più famoso, Robert Oppenheimer, cioè quello che per capirci con Enrico Fermi lavorerà al progetto Manhattan, gli scopritori della bomba atomica, per capirci. Ad un certo punto lui sta a Londra perché ha vinto un premio e fa degli studi lì e rimane profondamente colpito dall'esperienza del Science Museum e dei musei scientifici europei. Torna a San Francisco, torna negli Stati Uniti, e apre l'Exploratorium, e qui cambia tutto. L'Exploratorium è un posto veramente straordinario, esiste ancora. Se non ci siete mai stati cercate di andarci perché è un posto veramente incredibile, e ribalta tutto, perché oggettivamente non è un museo. E come si definisce? Si definisce un "Public Learning Laboratory". È un posto dove la scienza viene sperimentata solo ed esclusivamente attraverso esperimenti interattivi. I bambini devono partecipare. Se volessimo invertire, per parafrasare il ritornello, potremmo adesso dire che guardare e non toccare non serve ad imparare. Perché è il contrario, se vuoi imparare devi necessariamente toccare. È l'incarnazione dell'idea di "Edutainment", cioè si veicola il contenuto, in questo caso un contenuto scientifico, le leggi della fisica, attraverso quello che si chiama la "Gamification", attraverso un meccanismo di gioco. La cosa interessante all'Exploratorium è che si pone un obiettivo che è anche nel nome, Exploratorium. Vuole costruire esploratori attivi, e cioè nei valori dell'Exploratorium si legge questa cosa: non vogliamo che i giovani vengano qui a trovare risposte, ma vorremmo che venissero qui ad imparare a fare nuove domande. E questo è un altro cambiamento fondamentale. Poi, anche se questa foto sembra più vecchia, è una foto degli anni '80. Nel 1986, il Science Museum apre la prima Lauchpad Gallery, che è una galleria totalmente interattiva, anche qui dedicata a dimostrazioni scientifiche. E qui c'è questo episodio divertente che racconta il direttore del museo di allora, di questo ragazzino di otto anni che per la prima volta, uno dei primi ad entrare in questa sala, che aperte le porte ha sgranato gli occhi e ha detto: "Wow, it's toy heaven". Cioè è il paradiso dei giocattoli. Questa è stato l'inizio infatti di questa nuova trasformazione del museo, cioè è iniziata la nuova era: "Please, touch". E qui cambia tutto. Il museo comincia ad adottare linguaggi completamente diversi: i linguaggi di scenografia, spettacolo, performance, interazione. Ma quella che mi interessa è farvi capire il paradigma culturale come cambia, no? Cioè, se il museo precedente ereditava una tradizione che poteva avere, come dire, due punti fondamentali, no? Il curatore e il fruitore che andava a contemplare. Cambia totalmente il paradigma, cioè l'idea è la realtà diventa più complessa, le competenze della scienza e della fisica si ampliano, ed è evidente che se tu non ti senti parte di questo universo, se non lo sperimenti su di te, tu rimani esterno. Quindi cambia la modalità in cui va raccontata la scienza. E da lì in poi il museo cambia completamente. Cambia completamente compreso dal "Non toccare" fino a questo disgraziato, sulla destra, che ci sale sopra, cioè è quello che a noi costringe a fare strutture che reggano tre volte quello che dovrebbero fare, perché dobbiamo prevedere che l'uso del tocco, a questo punto, non è più così facilmente misurabile e prevedibile. Nascono idee che diventano meccanismi installativi. Questo sempre al Science Museum, per scendere dalle scale, si possono fare gli scivoli che è un esperimento scientifico, perché si prova l'attrito dei materiali. Il museo del CERN di Ginevra, in cui si entra in un paesaggio che è fatto di microparticelle. Questa è una mostra che abbiamo fatto a Roma qualche anno fa sul DNA, per cui per raccontare i cromosomi abbiamo costruito il bosco dei cromosomi interattivi, cioè, si diceva prima, una scala non visibile la dobbiamo rendere visibile, dobbiamo far capire come funziona quel sistema, e quindi lo esasperiamo, diventa un'installazione, diventa un oggetto in cui muoversi all'interno. E poi ci sono casi come questo: questo è affascinantissimo. Questo è... Chiamiamolo un "museo della cacca". In realtà il bambino arriva, gli viene messo un bel cappellino da cacca, non so come questo influirà sull'autostima del bambino... (Risate) Viene fatto entrare in un WC, scaricato e fa tutto il percorso all'interno delle fogne. (Risate) È a Tokio, esiste, è un'experience: e non si chiama, come l'ho banalizzato io, "Museo della Cacca", ma si chiama "Toilet!? Human Waste and Earth's Future", cioè, in effetti è l'Edutainment al massimo livello: cerco di far capire ai piccoli la complessità di un sistema strutturale urbano, come è quello delle fognature, e cerco di dare una consapevolezza ambientale. Quindi è Edutainment a livelli altissimi, in effetti. È cambiato veramente tutto, quindi il museo diventa anche soggetto che deve entrare nel mondo del marketing, deve cominciare a promuoversi, deve comunicare a diventare competitivo. Non è più solo quella cosa là, è un'altra cosa. Ed è molto chiaro da questa frase. Questa frase non la dice uno a caso, questa frase la dice l'ex responsabile della parte digitale del MOMA di New York, cioè uno dei musei più visitati al mondo. E lui dice, noi non siamo in competizione con gli altri musei, noi siamo in competizione con Netflix e con Candy Crush. Il nostro tema non è più competere con meccanismi di tipo culturale, la cultura è diventata un add-on di un'esperienza che compete con altre esperienze di entertainment. E qui subentro io, cioè io faccio questo lavoro qui. Io faccio, con altri nel mondo, questo lavoro qui, cioè il tentativo di fare questo passaggio, di trovare questa chiave di progettazione di questa nuova entità che chiamiamo museo, perché se no non ci capiamo, ma non è più museo, è un'altra cosa. Non ha un nome, ma è un'altra cosa. E quello che per me oggi diventa difficile è che, rispetto al museo precedente che poteva funzionare per almeno due o anche tre generazioni, io ho questa situazione qua. Io sono quella di sinistra. Tra l'altro da piccolo avevo un maglione schifoso come quello lì. Cioè faccio parte, come tanti qui dentro, di quella generazione lì, cioè quella che di fatto è cresciuta dove il medium con cui aveva la conoscenza era il libro: poi si è ampliato ad altre cose, ma di base c'era il libro. E siamo diventati "information seekers", cioè cercatori di informazione. Noi dovevamo, per ampliare la nostra conoscenza, andare a cercare informazione. Infatti, la foto... Quella foto potrebbe essere strappata dall'album di famiglia di ognuno di noi. Quando ho dovuto cercare una foto, invece, per raccontare la generazione per cui io progetto, ho trovato solo una foto da comunicazione che raccontasse quella roba lì. Però quella è la generazione per cui adesso bisogna progettare, cioè una generazione multi-tasking, digital natives, che ha un problema inverso, non deve cercare l'informazione, ma ha il problema di quello che oggi si chiama l'"information overload". È una generazione che ha bisogno di un lavoro di aiuto per gestire tutte quelle informazioni. Per capirci, c'è uno studio dell'università della California del 2008... Quindi del 2008, sono passati dieci anni, e la situazione sarà ancora più importante oggi, che ha stimato che più o meno siamo soggetti a 34 gigabyte di dati al giorno, solo guardando giornali, televisioni, le pubblicità per strada, il telefonino e queste cose qui. Per capirci, vuol dire circa 100.000 parole al giorno. Per capirci, Guerra e Pace, che è uno dei romanzi che ha più parole della storia della letteratura, ne ha circa 544.000. Quindi è veramente complicato. La soglia di attenzione pare che si sia abbassata ad otto secondi, quindi è davvero complesso capire come progettare ora. E quindi quello che io racconto sempre ai miei studenti è che alla fine noi siamo progettisti di filtri. Quello che dobbiamo veramente imparare è a costruire dei filtri intelligenti. Non il filtro contenutistico, quello lo fa il curatore. Non è il nostro compito, ma noi dobbiamo imparare a prendere tutta l'informazione che ci viene data e cominciare a capire come distillarla in tanti piccoli pezzettini da otto secondi di attenzione, perché nell'insieme costruiscano una maglia interessante. Oggi, con qualunque smartphone, possiamo accedere alle fonti di conoscenza su tantissimi aspetti della scienza, quindi il museo non può più competere con quella cosa lì. Il museo deve affascinare, deve coinvolgerci, deve farci capire il quadro di insieme di un racconto che diventa sempre più complesso e poi deve mandare successivamente all'approfondimento, perché non posso più staccarti da Netflix o da Candy Crush se penso di farti la lezione al museo. E la cosa interessante sapete qual è? Che né io né nessun altro che fa questo lavoro in questo momento al mondo è intitolato per farlo. Cioè nessuno di noi ha studiato per fare questa cosa qui. Abbiamo imparato da soli. Io faccio l'architetto, il mio socio ha studiato musicologia, quello con cui lavoravo precedentemente faceva musica elettronica ed era un graphic designer. Cioè, siamo tutta gente che è arrivata da esperienze totalmente diverse e ha imparato a fare questa cosa. Lavoriamo in team che sono composti da designer, informatici, artisti, scenografi, tecnici dello spettacolo, informatici, divulgatori scientifici, story teller, ingegneri. Siamo il vero esempio della multidisciplinarietà, ma non perché vogliamo riempirci la bocca con una parola moderna, perché nessuno sa fare questa roba qua, veramente. Tutti stiamo imparando a costruirla attraverso tante competenze. La cosa forse positiva è che tutti insegniamo in università, cioè stiamo tutti insegnando a qualche generazione più giovane a farlo questo lavoro invece, a costruire un sistema, un metodo. E ogni tanto ci capitano delle cose molto difficili. Questo è un esempio di una cosa che abbiamo fatto recentemente. Forse avete sentito parlare di questo museo M9 che ha aperto a Venezia, anzi, più precisamente a Mestre, circa l'anno scorso. È un museo molto grande che fa una scommessa molto particolare, una scommessa sperimentale straordinaria, come quella che stiamo facendo tutti i giorni, sperimentiamo. E cioè un museo del '900 che non contiene un solo oggetto fisico. È basato unicamente su esperienze immersive e interattive, e racconta il '900 attraverso questo modello di racconto seguendo la logica anglosassone del racconto storico che è quella della "Public history", cioè invece che raccontare la storia dal punto di vista dei potenti, la racconta attraverso il meccanismo dell'immedesimazione, provi a metterti nei panni di qualcuno che era lì. A noi, tra le varie cose che abbiamo progettato, ci è stato chiesto di raccontare la fabbrica. Quello che è stato nella memoria di molti di noi un mondo del lavoro molto importante, dovevamo raccontarlo a dei ragazzi molto giovani. Non sapendo da che parte cominciare, ad un certo punto abbiamo tentato un azzardo, una sperimentazione: proviamo a fare così, pensiamo che cos'hanno in comune la catena di montaggio e il videogioco. Entrambi hanno una cosa in comune, lo stress ambientale, il meccanismo di un punteggio, le penalità in caso di errore, e quindi proviamo a lavorare su quello. Ricostruiamo un meccanismo che attraverso la gamification, quello che si chiama il "Serious game", cioè un gioco che non dovrebbe divertire ma è un gioco serio, ricostruiamo un meccanismo sulla fabbrica. E questa è l'installazione finale, ci siamo anche inventati questa cosa: che nonostante tutto sia digitale ed elettronico, l'interfaccia è meccanica, perché volevamo che qualcosa del '900 rimanesse comunque. Ci siamo riferiti all’Ansaldo degli anni '50 e abbiamo ricostruito una sorta di video game che molto fedelmente ricostruisce tutti i pezzi di lavoro di una catena di montaggio. Ce lo chiediamo tutte le volte che finiamo un lavoro se abbiamo fatto la cosa giusta o se abbiamo fatto la cosa sbagliata. È un dramma perché non lo sai mai, perché c'è una sperimentazione, non c'è una strada che puoi seguire. [Mediatori Evanescenti] E questo mi ha fatto sempre sentire molto vicino a questa definizione che un filosofo che io apprezzo particolarmente, vivente, di origine slovena che si chiama Slavoj Žižek. Qualche anno fa, ha coniato questo termine, "Mediatori evanescenti", per definire chi, come noi, sta tra un prima e un dopo ed è un mediatore, perché fa una mediazione. Noi stiamo facendo una mediazione fra ciò che c'era prima, stiamo cercando di immaginare ciò che può venire dopo e siamo evanescenti perché dureremo pochissimo, perché, come ci è stato detto poco fa, nei prossimi anni faremo passi da gigante rispetto a quello che è stato fatto fino ad esso. Io continuo a dire, 50 anni fa, un figlio, un nonno e un padre facevano praticamente la stessa vita, se n'è parlato poco fa. Io vedo ragazzi che ogni 15 anni cambiano totalmente punto di vista. E Žižek diceva, per farvi capire che cosa intendeva per mediatore evanescente, faceva l'esempio di Charlie Chaplin quando nel cinema è entrato il sonoro, e Charlie Chaplin ha puntato un po' i piedi, ha avuto un atteggiamento un po' conservatore, perché cercava di capire l'impatto traumatico che avrebbe avuto la voce all'interno di quella forma espressiva, perché era un intruso estraneo e capiva che la sua poetica non avrebbe tratto alcun giovamento da quella cosa in più. E in questo io sento di dover fare, e quelli che fanno il lavoro come me credo che dovrebbero avere questo atteggiamento, cioè capire questo ruolo di mediazione e capire dove dobbiamo cedere di più e dove di meno, perché alla fin fine ci è delegato il racconto della scienza, della conoscenza, e quindi c'è un ruolo importante che dobbiamo rivestire, di cui dobbiamo essere consapevoli. Sappiamo da dove veniamo, abbiamo una porta davanti, che è quella successiva ed è molto difficile capire qual è il passo vero che possiamo fare. Ce lo domandiamo ad ogni progetto. Ad ogni progetto cerchiamo di essere coerenti, di essere attenti, di studiare con attenzione gli argomenti e di trovare i modi giusti per raccontarli. Non sappiamo se questa è la strada giusta. Domani mattina, con il prossimo progetto, proveremo a ripensarci nuovamente. Grazie. (Applausi)