Satsang con Mooji
[Mooji ]La mente umana non può
comprendere la saggezza del Supremo.
La compassione e l'empatia
Ritiro di silenzio a Zmar, Odemira, Portogallo
6 maggio 2012
[Interlocutrice] È davvero una grazia
e una benedizione essere qui
alla tua magnifica presenza.
La mia domanda riguarda l'empatia e la compassione.
[Mooji] L'empatia e la compassione.
[Interl.] Sì.
Mi ritrovo qui, dopo averti ascoltato su youtube;
mi stai guidando a entrare più a fondo
dentro di me.
Venti anni fa,
ho ricevuto le tecniche di autoconoscenza
dal mio caro maestro che amo
davvero molto profondamente.
La pratica di questa conoscenza,
di volgermi all'interno,
ha decisamente aumentato la mia sensibilità
alle vibrazioni e all'energia:
ho scoperto di essere diventata
molto più empatica.
Allora la domanda è: a volte, con l'empatia,
rispetto a ciò che accade nel mondo
e alle altre persone,
in profondità sorge dolore;
mi sembra di percepire il dolore del mondo.
Perciò la domanda è:
come restare più distaccata
all'interno di questa esperienza? Grazie.
[Mooji] Molto bene.
Questa sensibilità è comune a tutti
gli esseri intelligenti.
Una volta che hai riconosciuto il Sé
e sai: "Io sono il Sé",
non come qualcosa in cui credi,
ma come pura esperienza, diciamo così,
allora, la compassione non è qualcosa che fai.
Anche il mio maestro, Papaji disse:
"Se la mano mette del cibo nella bocca,
la bocca deve ringraziare la mano?",
no, sono in un unico movimento.
Questa è la compassione, possiamo dire.
Non sto facendo qualcosa per un altro,
diventa un'azione espressa dal Sé al Sé;
rientra nella tua stessa intimità:
la tua sensibilità è quella
e non serve che ne parli.
All'esterno prende la forma:
"Faccio qualcosa per il mondo",
ma interiormente sai che non è così:
è il Sé che si prende cura di se stesso.
È un'altra opportunità di esprimere
la sua bellezza, il suo amore a se stesso,
non ad altri; non ci sono 'altri' e lo vedi.
A un certo punto, certo,
quando vediamo che qualcuno soffre
e sembra molto intenso,
qualcosa in noi risponde in modo naturale,
ma se va oltre,
se quando vedi la sofferenza inizi a dire:
"Come faccio o facciamo a porre fine a questo?",
allora sei andata troppo lontano.
Voglio precisarlo,
perché sarebbe come dire:
"Questa cosa non dovrebbe esistere".
So che c'è in noi una sensibilità che dice:
"Vorrei vedere la fine della povertà
e della sofferenza".
Non finiranno, non in questo modo!
Pure quelle sono uno strumento
che la coscienza usa per affinarsi.
La mente umana non può comprendere
la saggezza del Supremo.
Nel migliore dei casi, qualcosa arriva a dire
che è imperscrutabile
e in quanto coscienza, dona il suo senso
di indipendenza al servizio della totalità.
Lo fa, ma non in modo ossessivo.
Si potrebbe dire:
se un saggio si trova a passare in un luogo
e all'improvviso avviene un terremoto:
i palazzi crollano,
la gente urla e resta intrappolata,
il saggio, lui o lei, andrà in loro aiuto,
aiuterà attivamente e farà ciò che va fatto,
ma quando il lavoro è finito,
se ne andrà senza costruirci una storia:
"Ero in quella città, è stato terribile,
non sapevo che fare, perché accade?". No!
È così e basta.
Questo tipo di distacco non è insensibilità,
è profondamente appropriato,
inoltre, non puoi soffrire
al posto degli altri, non li aiuta.
A volte, dobbiamo anche stare attenti
a come la mente potrebbe creare
un'interpretazione di ciò che accade,
che forse non è vera.
Lei fa presto a indicare sofferenza,
ma questa a un certo livello è pure necessaria,
e tu dirai: "Come? Mostramelo!",
non so come mostrartelo.
Vedo che, se togli una persona dal luogo
in cui si lamenta e le chiedi cosa vorrebbe,
poi la metti lì dove ha chiesto,
dopo due settimane torna laddove stava:
"Pare che la mia vita sia qui.
Qui è reale per me, non là come pensavo,
"a vivere succhiando miele tutto il giorno;
dopo tutto, non è questo che voglio. [Risate]
"Sono qui con le mie difficoltà e tutto ciò,
"ma c'è realtà in questo
ed è quello che devo attraversare".
Ma tu insisti: "Che dire, però,
dei bambini e che dire di questo?",
pure i bambini sono anime antiche
e siamo tutti sulla stessa barca.
Non dico di restare indifferente, niente affatto!
Quel che devi fare è restare il Sé
e lasciare che i tuoi occhi
assistano alle azioni del Supremo.
Perché soffrire per gli altri, non li aiuta.
La parola 'soffrire' è anche,
molto spesso, usata male, non compresa,
perché ci identifichiamo:
"Non vorrei che accadesse a me"
e sì, questa è una motivazione per condividere,
per essere presenti e autentici, anche lì.
Quindi, non voglio dare a questo
qualche tipo di forma, non più di tanto,
ti dico solo: resta il Sé,
e tutto questo troverà il suo senso per te,
interiormente, a un certo livello.
Ma seduti dove siamo, nel nostro pensiero
dualistico e nella mente egoica,
non possiamo comprendere l'imperscrutabilità
delle vie di Dio: è impossibile.
Poco a poco, giungerai a capire,
subentrerà la fiducia e la capacità di vedere,
e dove si potrà davvero aiutare,
l'aiuto si manifesterà,
perché non puoi andare da un fratello
o una sorella che soffrono a dire:
"Be', non è niente, non esiste".
No, se sei vera qualcosa ti spinge a esserci,
almeno per essere presente
e vedere che si può fare, ma non esagerare;
non devi diventare una missionaria.
Non voglio distinguere in categorie:
non questo, non quello,
ma ciò che voglio trasmetterti di più puro, è:
rimani in quanto il Sé!
A quel punto, qualunque azione sorgerà
e verrà espressa,
in sostanza, sarà l'agire dell'universo,
se non c'è la persona.
La persona non sa valutare accuratamente ciò che è.
Ho fatto anche un esempio, una volta,
e ne parlo sempre,
perché trovo sia un'intuizione profonda:
in un satsang molto simile a questo,
svoltosi qualche anno fa a Bombay,
dopo che Sri Nisargadatta Maharaj
parlò un po' della vita,
(proprio dello stesso argomento)
un uomo si alzò e disse:
"Ti ho ascoltato e credo alle tue parole,
"mi hanno toccato molto,
ma se devo essere sincero,
"nel mio caso, provo sempre sofferenza"
e il maestro ha subito replicato:
"Non è vero! Non provi sofferenza,
soffri per ciò che provi";
non provi sofferenza, quest'ultima
non è un oggetto da dire: "Provo sofferenza".
Nisargadatta rispose: "Soffri per ciò che provi",
riconsegnando a lui il potere.
Il modo in cui vai incontro a ciò che vedi,
dipende anche da ciò che pensi di essere,
dal livello di saggezza che hai raggiunto
e dalla profondità con la quale
ti sei stabilita nella comprensione del Sé.
A quel punto, non soffrirai più per ciò che provi.
Più o meno come l'esempio del saggio di prima:
se passi da un luogo ove accadono
catastrofi e disastri, li affronterai;
sarai presente
finché ciò che c'è da fare si conclude,
e saprai quando sarà finito;
qui nel cuore lo saprai,
qualcosa te lo dirà
e il tuo corpo proseguirà la sua strada.
Qualcun altro potrebbe dire:
"Ma come fai a essere così calmo e insensibile?".
Forse, però, quello è il modo più puro di agire,
rispetto a chi piange e urla in mezzo alla strada.
La sensibilità è naturale, ma non deve prevalere,
o essere nella prima pagina della coscienza.
Farà parte di tutte le altre espressioni
che possono sorgere,
ma la presenza predominante, prevalente,
sarà quella del puro Sé-consapevolezza.
Ho fatto un esempio, tempo fa:
se improvvisamente vi fosse uno scenario
di devastazione completa,
esplode una bomba, qualcosa di simile o altre cose,
e se potessimo vedere gli angeli che vi assistono,
se solo potessimo vederli, non vi sarebbero
lacrime, pianti o espressioni di terrore:
ci sarebbe serenità, presenza,
potere, autorità, calma,
una compassione che la mente umana
non può concepire
e che opera per cambiare le cose
in un modo che non possiamo capire.
Queste forze sono qui,
fanno parte della nostra struttura interiore,
ma non riusciamo a vedere, né ad apprezzare
il potenziale, la forza e la presenza del Supremo,
perché i nostri occhi sono in un'altra dimensione,
al servizio di qualcos'altro,
delle nostre proiezioni che spesso ci accecano.
Non ci dobbiamo stra-preparare
per una possibile calamità,
ma solo essere il Sé.
Non c'è nulla che sia spontaneo come il Sé.
Ma finché ci teniamo il fiato della mente
sul collo, continua a dirci:
"Non fai niente, stai seduto qui,
fai solo passare il tempo",
allora tutti si ritrovano sul tapis roulant,
a correre senza potersi fermare
e non diamo valore al silenzio,
a riposare nello spazio aperto.
Quindi, sì, la sensibilità c'è,
è parte della dolce fragranza del Sé,
ma non deve essere la cosa più importante:
percepiscila, ma se ti fermi lì,
ti fai tirare dentro e inizi a pensare:
"Cos'è tutto ciò? Come può Dio permetterlo?".
Può succedere se ti spingi troppo in là:
stai ferma qui.
Si può dire che ci sono molti fatti
che non capiremo mai,
non certo attraverso lo sforzo.
È come se il Supremo dicesse:
"Radunate pure tutte le menti più eccelse
"per tentare di capirmi,
e non vi avvicinerete mai a me,
"ma se mi amate, sono vostro".
Nessuno è abbastanza intelligente
da comprendere le meraviglie di Dio.
Se sei abbastanza ragionevole,
abbandonati ai piedi del Supremo.
Non stabilire neppure cosa pensi sia bene per te,
sii radicale nell'offrire te stessa,
per quanto riesci a esserlo.
E pure lì, la grazia ha il ruolo più importante.
Persino immaginare di essere strumenti
della volontà divina,
è già arroganza
e presuppone ancora separazione:
siamo una cosa sola!
Ridiamo, soffriamo, viviamo,
moriamo insieme e andiamo ancora oltre,
uniti, essendo una cosa sola.
Il modo in cui vai incontro a ciò che vedi
dipende da ciò che pensi di essere,
dal livello di saggezza che hai raggiunto
e dalla profondità con la quale ti sei radicato
nella comprensione del Sé.
Resta nel Sé e permetti ai tuoi occhi
di osservare le azioni del Supremo.