Il mio lavoro è nato per caso, in una giornata qualunque. Oggi è strano pensare a quante possibilità si nascondano all'interno delle abitudini. La mia giornata qualunque, ma che ha per sempre cambiato il corso della mia vita, è avvenuta cinque anni fa. Mi sono svegliata e, come tutte le mattine, ho preparato il caffè. Devo ammettere di essere una persona tendenzialmente pigra. E seppur questa caratteristica non mi abbia particolarmente aiutato nella vita, probabilmente ha dato una certa profondità alla mia osservazione, data appunto dalla lentezza. Per cui, cinque anni fa ho preparato il mio caffè, e per sbaglio, l'ho rovesciato sul tavolo della mia cucina. Ma sempre seguendo questo principio di lentezza o di pigrizia, non ho asciugato subito questa macchia e mi sono presa un momento per osservarla. E mi è sembrata una macchia molto interessante, anzi direi piuttosto bella. Quello che mi piace incredibilmente, di questa macchia, è che sia il perfetto risultato di un gesto, come un disegno o una scrittura. E se ci pensiamo, ogni macchia è il risultato di un movimento diverso del nostro polso. Un po' come la scrittura giapponese. Per cui, quel giorno, ero presa nell'osservazione della mia macchia, e ho incominciato a pensare: Ma se oltre al movimento, che è già insito, per natura, nella macchia, ci mettessi un'intenzione? Se dalla tazzina di caffè, che ne so, potesse uscire un ritratto, una storia o un paesaggio? Se addirittura, in tutto quello che guardo, ci fosse una realtà diversa, se solo si avesse la lentezza e lo sguardo giusto per osservarla? Così quel giorno ho incominciato a disegnare all'interno della macchia con quello che avevo attorno a me. Un pennello, o semplicemente cucchiaini, stuzzicadenti, quello che mi proponeva la mia cucina. E quel giorno sono letteralmente entrata all'interno della tazzina, come se fosse una realtà parallela, realtà nella quale tuttora mi trovo, e che ha cambiato il corso della mia vita. Il mio punto di vista sul mondo è diventato il mio lavoro. Dalla prima macchia di cinque anni fa ne sono nate tantissime altre, e all'interno di queste macchie sono successe tantissime cose. Sono sorte delle città immaginarie: addirittura delle persone si sono innamorate, sono nate delle grandissime metropoli - sì, c'è stato un vascello. E devo dire di aver veramente vissuto delle storie incredibili, all'interno di queste tazzine di caffè. Guardare le cose da vicino, spesso vicinissimo, è stato illuminante. È stata la cosa più bella che mi abbia portato a fare il mio lavoro. Così, il mio occhio si è concentrato sulle forme, sui colori. Sono diventata affamata di vedere e di capire il perché di certe texture che trovavo in natura, ma che poi si ripresentavano sempre uguali. E si ripresentavano, anche, all'interno del mio corpo. Come ad esempio la venatura delle foglie. Tutto era fonte di ispirazione, appunto guardata con un occhio nuovo. Ed era un occhio nuovo, soprattutto, verso la semplicità, verso l'abitudine, verso quello che trovavo in casa, come le verdure. E mi affascinava la loro forma e il loro colore, come il rosso andava a cadere nel verde e viceversa. E anche le loro intricatissime costruzioni interne, che sembravano proprio quasi umane. Di una cosa ero perfettamente certa: tutto mi sembrava unito dal filo rosso dell'armonia e del significato. Così, il mio lavoro è diventato un dialogo. Mettevo una parte di me all'interno di una foglia, ad esempio, ma andandone a ricalcare le naturali venature, andandone a studiare lo spessore, la forma, il colore, la resistenza. Non vedendolo più come un semplice mezzo a mio servizio, ma come una forma di vita a sé, piena di cose da dire, piena di storie da raccontare. E di cose da dire ce ne sarebbero veramente tantissime. Spesso scendo nel mio quartiere, o vado in campagna a fare una passeggiata alla ricerca di piccoli elementi naturali, o foglie, con in testa un'idea di disegno o di intaglio. Poi torno a casa, svolto tutto il mio bottino sul tavolo della cucina, sempre lo stesso, e dispongo tutti gli elementi. E mi rendo conto che è tutto perfetto così, non serve nessun tipo di mio intervento. E in quei momenti magici, di epifania, sento che c'è una forma di riposo, nella bellezza, e di tendenza al bene. La parola riposo è una delle mie parole preferite. Provate a chiudere gli occhi e pensare che cos'è per voi il riposo. Riposo che non è dovuto - non è sonno, è una cosa diversa. Almeno a me, la parola riposo dava più un senso di benessere, di pace. E per me la bellezza che scopro nella natura è proprio questo: riposo. Penso che la bellezza sia una necessità umana, necessità appunto di riposare gli occhi, il cuore, e di credere che ci siano possibilità. Per bellezza non intendo quella finta, che tende ad allontanare le persone, che spesso vediamo sui social, soprattutto su Instagram io lo vedo spessissimo, perché tende a mettere su un piedistallo qualcuno, e tutti gli altri in basso. Ma intendo una bellezza "pesante", ricca di significato, che trovo sempre nelle forme naturali e in tutto quello che è la spontaneità. Un tipo di bellezza che accomuna, che avvicina. Non a cui tendere con fatica, ma che abbiamo proprio all'interno di noi stessi. A tal proposito, vorrei leggervi una poesia di Wislawa Szymborska, una poetessa polacca che io amo particolarmente, e che tratta proprio questo tema della bellezza quotidiana vista nelle sue forme più semplici ma più profonde. Cercherò di leggervela nel migliore dei modi, ma magari rileggetela anche a casa. Si intitola "Un appunto". La vita è il solo modo per coprirsi di foglie, prendere fiato sulla sabbia, sollevarsi sulle ali. Essere un cane, o accarezzarlo sul suo pelo caldo. Distinguere il dolore da tutto ciò che dolore non è. Stare dentro gli eventi, dileguarsi nelle vedute, cercare il più piccolo errore. Un'occasione eccezionale per ricordare, per un attimo, di che si è parlato a luce spenta. E almeno per una volta, inciampare in una pietra, bagnarsi in qualche pioggia, perdere le chiavi tra l'erba, e seguire con gli occhi una scintilla nel vento. E persistere nel non sapere qualcosa d'importante. Grazie. (Applausi)