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Nella vita faccio l'inviato.
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Una volta si usava spesso
l'aggettivo "speciale":
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forse perché allora lo erano davvero.
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E penso ai grandi inviati
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come Richard Kapuscinski,
Ettore Mo, Tiziano Terzani:
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gente che ha scritto articoli
da tutto il mondo,
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e che hanno ispirato
anche la mia carriera,
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sognando un giorno
di poter ripercorrere quella strada.
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Io, però, non pensavo
di poter riuscire a diventare un inviato,
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e questo per un blocco emotivo
che ho fin da piccolo.
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Durante questo discorso, per esempio,
la mia voce potrebbe farsi affannata,
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potrei aver difficoltà ad esprimermi
per un groppo alla gola.
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Oppure, in altre occasioni
comincio a sudare.
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Quando succede questo,
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riesco a farmi il bagno, completamente,
nei miei vestiti, in due minuti,
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e non c'è strategia
o camicia scura che tenga.
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Succede quando mi trovo
al centro dell'attenzione,
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o in situazioni di forte stress
o disagio, come questa;
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o molto spesso -
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Quando capita ad un giornalista televisivo
non è proprio il massimo della vita, ecco.
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La svolta è arrivata nel 2011.
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Lavoravo a Firenze,
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e sono entrato in Rai
nel 2008, per concorso.
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Il caporedattore viene da me e mi dice:
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"Giammarco, vai a vedere
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cosa sta succedendo in Lunigiana,
nel nord della Toscana;
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c'è un allagamento, dei nubifragi.
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Ovviamente non sapeva
che cosa avrei trovato sul posto
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perché non avrebbe mandato me,
che ero l'ultimo arrivato, il più giovane.
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Sta di fatto che arrivo ad Aulla,
in Lunigiana, al mattino,
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e la situazione è ben diversa
da quella che avevamo immaginato:
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c'era devastazione, c'erano morti,
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c'erano dispersi,
c'erano tre ponti crollati.
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I ponti... poi ne riparleremo.
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Io comincio a fare
il mio lavoro da cronista,
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finalmente su un fatto
di cronaca importante.
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Raccolgo testimonianze, interviste.
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Rimarrò lì per più di dieci giorni
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con la stessa camicia
e lo stesso giubbottino di pelle.
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La mattina faceva molto freddo,
perderò anche la voce:
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ma questo è un altro discorso,
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che ha a che fare
con la vita di noi inviati.
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Quello che mi interessa sottolineare
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è quello che succederà
quella sera stessa, alle 20 in punto.
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Mi trovo di fronte a una telecamera:
quella è l'edizione delle 20, del Tg1.
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Il Tg1 delle 20 è l'edizione
più vista in Italia:
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sono 4,5 milioni di italiani
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che aspettano di sapere
cosa gli racconterai.
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Ovviamente ero molto nervoso,
molto sotto stress.
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La telecamera si accende
e comincio a parlare.
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La mia voce però è calma,
riesco ad esprimermi.
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Non sudo:
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forse era abbastanza freddo,
era a fine ottobre.
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Comunque riesco a portare al termine
quella diretta di un minuto e mezzo,
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riesco a raccontare
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tutto quello che avevo visto
durante quella lunga giornata.
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Alla fine di quella diretta,
mi rendo conto che potevo fare l'inviato.
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Avrei convissuto per sempre
con questo problema,
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ma ce la potevo fare.
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Ma perché intestardirsi tanto
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nel voler fare un qualcosa
che mi creava così grossi problemi?
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Perché penso che raccontare
le storie delle persone,
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raccontare la vita della gente
e raccontare il mondo
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sia una delle cose più belle
e più importanti che si possano fare.
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E molto spesso il giornalismo,
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a differenza delle alluvioni
che i ponti li distrugge,
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a volte, e molto spesso, il giornalismo
i ponti li può anche creare.
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E ora vi spiego come.
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Maggio 2019:
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mi trovo a Caracas, in Venezuela,
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inviato per la Rai per seguire i fatti
che stavano avvenendo nel Paese.
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Un giorno vengo a conoscere una vicenda
che riguarda e interessa 64 bambini,
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64 bambini venezuelani
che hanno bisogno di cure.
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Purtroppo, però,
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quelle cure vengono rimandate
da circa tre settimane.
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Questo per effetto di un accordo
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che c'era tra il governo venezuelano
e un ospedale italiano
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che prevedeva il trasferimento
di questi bambini proprio in Italia.
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Quell'ospedale era
il "Bambin Gesù" di Roma.
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Purtroppo, però, il governo venezuelano
non stava pagando quei milioni di euro
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necessari al trasferimento
di questi bambini,
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che non potevano essere curati,
però, nel loro paese
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per la mancanza delle medicine
e dei trattamenti necessari.
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Decido quindi di andare
a casa di Maria Julio.
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Maria Julio ha sette anni, è di Caracas.
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Ed è una delle bambine, appunto,
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che attendevano queste cure
non più rimandabili.
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Ed incontro sua madre
in una casa molto povera,
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in un quartiere molto povero di Caracas.
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La madre, in quell'occasione,
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fa un appello agli italiani,
ma [anche] al mondo,
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disperata, in lacrime,
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chiedendo di sbloccare
finalmente quella situazione.
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Ovviamente io realizzo il servizio,
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che poi quella sera stessa
entrerà nelle case degli italiani
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con l'appello della madre di Maria Julio.
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Poche ore dopo,
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il "Bambin Gesù" di Roma
organizza una conferenza stampa
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per annunciare che da lì a poco
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avrebbe consentito il trasferimento
di questi bambini in Italia
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per, finalmente, effettuare queste cure -
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e lo avrebbe fatto
gratuitamente, pro bono.
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Ovviamente mi precipitò subito
a casa della madre di Maria Julio,
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dove si trovava anche
un'altra madre, di un altro bambino,
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anche lui affetto da leucemia
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e quindi anche lui
in attesa di queste cure.
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Dò loro la notizia,
ovviamente loro non lo sapevano.
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E questa volta, la loro reazione
è un pianto di gioia, di grande felicità.
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Ricordo quel momento
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come uno dei momenti
più belli della mia vita.
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Purtroppo però, sapere tre giorni dopo
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che il bambino dell'altra signora
non ce l'avrebbe fatta,
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nell'attesa di quel
trasferimento in Italia.
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Invece Maria Julio,
e tanti altri bambini venezuelani,
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riusciranno ad ottenere quelle cure
e riusciranno, quindi, a salvarsi.
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Ecco: questo è uno degli esempi
in cui il giornalismo diventa un ponte
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tra gli ultimi, tra gli inascoltati,
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tra chi non avrebbe altra possibilità
per far sentire la propria voce
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e chi, invece,
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quel potere di risolvere
le situazioni ce l'ha:
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i politici, le associazioni,
le singole persone.
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Facciamo adesso un passo indietro,
e andiamo nel gennaio del 2017.
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Mi trovavo questa volta inviato,
sempre per la Rai ma in Italia, a Teramo.
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Sono in compagnia di un collega,
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Giorgio Specchia
del Giornale Radio della Rai.
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Ci troviamo a cena,
siamo lì per l'emergenza neve
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e stiamo trascorrendo alcuni giorni
facendo cronaca, appunto in Abruzzo.
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A un certo punto, notiamo un tweet
del presidente della Provincia di Pescara:
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è un tweet confuso,
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che parla di morti, di possibili dispersi,
di una valanga e di un hotel.
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Noi non sappiamo che fare:
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decidiamo però di andare a vedere,
sul posto, cosa stava succedendo.
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Ci mettiamo in auto
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e arriviamo a Penne, un piccolo paesello
sotto il Gran Sasso, attorno a mezzanotte.
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Il paese è completamente immerso
nel buio, in un black out.
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Ci sono tre metri di neve,
e l'unica luce è in fondo,
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ed è la luce
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del Centro di Coordinamento
della Protezione Civile.
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Ci avviciniamo, chiediamo informazioni,
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e ci confermano che una spedizione
è appena partita... su degli sci.
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Dei soccorritori si sono messi sugli sci,
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e stanno cercando
di raggiungere un albergo
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che si trova qualche chilometro
più a monte rispetto a dove ci troviamo.
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Quell'hotel, quell'albergo,
è ovviamente l'Hotel Rigopiano.
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E queste sono le immagini
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che ovviamente voi tutti riconoscete.
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Da allora, era mezzanotte,
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cominciamo quindi a lavorare
e a dare informazioni su quella vicenda.
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Io avevo la prima edizione al mattino;
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Giorgio, invece,
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andava in onda sul Giornale Radio
della Rai ogni mezz'ora,
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e quindi faceva la spola
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tra il Centro di Coordinamento
della Protezione Civile e il mio collega,
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dandogli le informazioni
su dove si trovassero i soccorsi.
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Eravamo gli unici giornalisti,
ma soltanto perché ci trovavamo vicini
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quando avevamo avuto questa notizia.
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Gli altri sarebbero arrivati al mattino.
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Quel che succederà dopo
lo conoscete tutti, purtroppo:
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i dispersi salvati sotto la valanga,
quei quattro bambini tratti in salvo;
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ma anche le vittime, e poi le polemiche
e il processo ancora in corso.
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Ma non è questo che voglio
sottolineare in quest'occasione,
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ma quello che succederà
tre settimane dopo.
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Mi trovavo a Roma: l'emergenza era finita,
stavo facendo colazione, una mattina.
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Apro il giornale, e sfogliandolo
trovo l'intervista a Fabio Salzetta.
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Fabio Salzetta è uno dei due
sopravvissuti di Rigopiano
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che si trovava al di fuori dell'hotel
nel momento della valanga.
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Lui si era salvato casualmente,
in quell'occasione:
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e racconta, in quell'intervista,
quelle ore di disperazione
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tra il momento della valanga
e l'arrivo dei soccorsi.
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"Mi trovavo in auto", racconta Fabio,
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"assieme ad un altro sopravvissuto:
avevamo freddo, era -10, -12 gradi.
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Eravamo disperati, era tutto buio,
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non vedevamo niente,
non sapevamo dove fossero gli altri.
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E soprattutto, non sapevamo
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se qualcuno sarebbe,
effettivamente, venuto a soccorrerci.
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A un certo punto, accendiamo la radio
e sentiamo una voce"
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Quella voce era la voce
di Giorgio Specchia,
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del collega del Giornale Radio"
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Continua Fabio:
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"Grazie a quella radiocronaca di mezz'ora,
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in mezz'ora noi avevamo la certezza
che qualcuno sapeva che noi eravamo qua,
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che qualche soccorritore
stava cercando di raggiungerci.
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I soccorritori sono
a tre chilometri dall'hotel;
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i soccorritori sono
a due chilometri dall'hotel;
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i soccorritori sono quasi arrivati."
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E Fabio conclude: "Probabilmente,
quella voce ci ha dato
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quella forza e quella speranza necessaria
per non soccombere alla disperazione".
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Ecco: anche in questo caso
il giornalismo può diventare un ponte,
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un collegamento
tra i soccorritori e i soccorsi.
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Tra chi sta cercando un aiuto,
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e chi quell'aiuto
effettivamente lo potrà portare.
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Potrei continuare a lungo
raccontando aneddoti di questo tipo,
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ma purtroppo il tempo è quasi finito.
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Mi lascio un momento
per rivolgermi direttamente,
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e soprattutto ai più giovani
presenti in sala e non solo.
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Non rinunciate mai ai vostri sogni:
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cercate sempre di raggiungere
il vostro obiettivo della vita,
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anche se dovesse costargli
un bagno completo nei vostri vestiti -
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o molto, molto peggio.
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Vi lascio con un brano
tratto da una serie di articoli
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contenuti in un libro che si chiama
"Dispacci dalla Cambogia".
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"Un giorno, mi imbatto
in un checkpoint di Khmer Rossi.
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Uno dei soldati mi vede,
comincia a correre verso di me.
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Era fuori di sé, era invasato;
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mi sbatte contro il muro,
mi ficca una pistola dentro la gola.
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Io lo guardo con gli occhi spalancati
-
e penso: questo è
il momento in cui morirò.
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Poi, non so perché,
-
improvvisamente, senza motivo,
comincio a ridere.
-
Una risata a crepapelle, sguaiata.
-
Quella risata mi salverà la vita,
-
perché il soldato avrà
un attimo di esitazione necessaria
-
affinché il capitano del suo battaglione
si avvicini e blocchi l'esecuzione".
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Questo era Tiziano Terzani:
un inviato molto, ma molto, speciale.
-
Grazie.
-
(Applausi)