Quando ero un piccolo hawaiano, mia mamma e mia zia mi raccontavano sempre storie su Kalaupapa -- la colonia hawaiana di lebbrosi circondata dalle più alte scogliere del mondo -- e su padre Damien, il missionario belga che ha dato la vita per la comunità hawaiana. In quanto giovane infermiera, mia zia formava le suore che si occupavano dei restanti lebbrosi circa 100 anni dopo che padre Damien era morto di lebbra. Mi ricordo le storie che raccontava di quando viaggiava lungo i tornanti delle scogliere su un mulo, mentre mio zio le suonava le sue canzoni preferite all'ukulele giù fino a Kalaupapa. Vedete, da giovane mi chiedevo sempre alcune cose. Primo, perché un missionario belga scegliesse di vivere in totale isolamento a Kalaupapa, sapendo che inevitabilmente avrebbe contratto la lebbra dalla comunità che stava aiutando. Secondo, da dove venivano i batteri della lebbra? E perché i Kānaka Maoli, gli indigeni delle Hawaii, erano così predisposti a contrarre la lebbra, o "mai Pake"? Questo mi ha reso curioso rispetto a ciò che rende gli Hawaiani unici -- ossia il nostro corredo genetico. Ma solo durante le scuole superiori, attraverso il Progetto Genoma Umano, ho realizzato che non ero l'unico a cercare di trovare connessioni tra il nostro patrimonio genetico e salute, benessere e malattia. Vedete, questo progetto da 2.7 miliardi di dollari prometteva un'era di medicina profetica e preventiva basata sul nostro particolare corredo genetico. Quindi a me è sempre sembrato ovvio che per raggiungere questo sogno avremmo dovuto analizzare un gruppo variegato di persone per ottenere uno spettro completo della variazione genetica sulla Terra. È per questo che 10 anni dopo, continua a sorprendermi il fatto che il 96% degli studi sul genoma che associano variazioni genetiche comuni a patologie specifiche si focalizzino esclusivamente su individui di discendenza europea. Non serve un dottorato per capire che il 4% della varietà viene lasciato fuori. Nella mia ricerca, ho scoperto che molto meno dell'1% si è interessato alle comunità indigene come me. Questo fa domandare: a chi è rivolto in realtà il Progetto Genoma Umano? Così come abbiamo diverso colore degli occhi e dei capelli, metabolizziamo diversamente le medicine a causa della diversità nei nostri geni. Quanti di voi si stupirebbero nel sapere che il 95% dei test clinici sono basati esclusivamente su individui di discendenza europea? Questa tendenza e la ripetuta mancanza di coinvolgimento delle persone indigene nei test clinici e negli studi sul genoma è parzialmente il risultato di un'epoca di diffidenza. Per esempio, nel 1989 i ricercatori dell'Arizona State University ottennero dei campioni di sangue dalla tribù Havasupai dell'Arizona, promettendo di diminuire l'impatto del diabete di tipo 2 che colpiva la loro comunità, con la sola intenzione di usare quegli stessi campioni -- senza il consenso degli Havasupai -- per studiare l'incidenza della schizofrenia, della consanguineità, e per mettere in dubbio la storia delle origini degli Havasupai. Quando gli Havasupai l'hanno scoperto, sono riusciti ad ottenere un risarcimento di 700.000 dollari, ed a vietare all'Arizona State University di fare ricerche sulla loro riserva. Questo ha portato ad una sorta di effetto domino con le tribù del Sud Ovest -- inclusa la Nazione Navajo, una delle tribù più grandi del Paese -- ed è stata prevista una moratoria sulla ricerca genetica. Ora a parte quest'epoca di diffidenza, credo ancora che gli indigeni possano trarre benefici dalla ricerca genetica. Se non facciamo qualcosa subito, le disparità nelle condizioni di salute saranno sempre maggiori. Alle Hawaii per esempio, si ha l'aspettativa media di vita più lunga di qualsiasi altro stato in USA, tuttavia gli hawaiani nativi come me muoiono dieci anni prima degli abitanti hawaiani non nativi, perché hanno la più alta incidenza di diabete di tipo 2, di obesità, e dei killer numero 1 e 2 degli Stati Uniti: i problemi cardiovascolari e il cancro. Allora cosa possiamo fare per far sì che le persone a cui più serve un sequenziamento del genoma non siano le ultime a beneficiarne? A mio parere bisogna rendere la ricerca genetica più autoctona, bisogna rendere la tecnologia di sequenziamento del genoma più indigena. Tradizionalmente, il sequenziamento viene fatto in laboratorio. Ecco un'immagine del classico sequenziatore di genoma. È enorme. Grande quanto un frigorifero. Ci sono ovviamente delle limitazioni fisiche. E se invece si potesse sequenziare il genoma al volo? Se si potesse creare un sequenziatore tascabile? Questo sequenziatore basato su nano-pori è grande un decimillesimo di un sequenziatore tradizionale. Non ha le stesse limitazioni fisiche, non essendo ancorato ad un tavolo da laboratorio con cavi esterni, sostanze chimiche e monitor. Ci permette di decodificare il genoma sequenziando lo sviluppo tecnologico in maniera coinvolgente e collaborativa, emancipando le persone indigene rendendole... degli scienziati amatoriali. 100 anni dopo a Kalaupapa, abbiamo la tecnologia per sequenziare i batteri della lebbra in tempo reale, usando sequenziatori di genoma mobili, accesso ad Internet da remoto e piattaforme cloud. Ma solo se lo vuole il popolo hawaiano. Nel nostro spazio, secondo i nostri termini. IndiGenomics tratta di scienza per le persone ed è fatto dalle persone. Inizieremo con una risorsa per la consultazione delle tribù, focalizzata sull'educazione delle comunità indigene riguardo il potenziale uso e abuso delle informazioni genetiche. Infine ci piacerebbe avere un nostro istituto di ricerca IndiGenomics per condurre i nostri esperimenti ed educare le future generazioni di scienziati indigeni. Alla fine, bisogna che le persone indigene siano soci e non oggetto della ricerca genetica. Per coloro che sono al di fuori, come fece padre Damien, la comunità scientifica ha bisogno di immergersi nella cultura indigena o morire nel tentativo. Mahalo. (Applausi)